Brexit: «Voglia di sconfiggere i continentali»

L’incontro di ieri a Bruxelles tra la premier britannica May e il presidente della commissione UE Juncker è stato definito «costruttivo», ma non risolutivo. Intanto la Brexit continua a dividere anche gli inglesi: ieri tre deputate Tory pro-Remain hanno lasciato il loro partito, così come avevano già fatto otto laburisti pro-UE che hanno abbandonato il Labour per protesta. Sul braccio di ferro in atto tra Londra e Bruxelles abbiamo sentito Antonio Armellini, già ambasciatore italiano, collaboratore dell’Istituto Affari Internazionali di Roma, nonché editorialista del Corriere della Sera.
Se entro il 29 marzo non vi sarà un’intesa tra Londra e Bruxelles, far partecipare i britannici alle elezioni europee di maggio potrebbe essere un modo per tastare il polso ai britannici sulla Brexit?
«Credo che tra le varie soluzioni sul tappeto, questa sia una delle meno probabili e una delle più complesse. Perché si tratterebbe, per Londra, di eleggere a termine dei rappresentanti al Parlamento europeo, nel senso che dopo qualche tempo la Brexit si completerebbe e questi parlamentari dovrebbero lasciare il loro incarico. Direi che il nodo del voto per il Parlamento europeo è proprio uno di quelli che rende problematico l’allungamento dei termini per l’uscita del Regno Unito dall’UE. Si parla di un allungamento di tre mesi. Un termine però insufficiente per definire tutti gli aspetti ancora irrisolti. Una terza soluzione è quella di fermare le lancette dell’orologio».
In che senso fermare le lancette?
«È una vecchia prassi che si usava in passato quando non si riusciva a concludere un accordo entro i tempi prefissati. Si diceva convenzionalmente di tenere l’orologio fermo, per cui il negoziato continuava anche se la data limite era stata raggiunta».
Quindi vorrebbe dire proseguire le trattative oltre il 29 marzo?
«Sì. Del resto anche ammesso che entro dieci giorni si concludessero i negoziati, ci dovrebbe essere ancora un voto all’unanimità del Consiglio europeo, il voto del Parlamento europeo e i 27 Parlamenti nazionali dovrebbero ratificare l’accordo. Quindi il tempo a disposizione non sembra sufficiente».
Si stanno facendo più chiare le ripercussioni negative che l’economia britannica dovrà affrontare una volta uscita dall’UE. Ciò potrebbe favorire un accordo nel quale Londra si rassegnerà a restare nel Mercato comune europeo?
«Cresce l’onda di quanti chiedono un secondo referendum, che sarebbe un passaggio indispensabile per arrivare alla soluzione di cui lei parla. Ma l’opinione pubblica britannica resta molto divisa sulla Brexit. Rimane una corrente di opinione molto radicata, abbastanza difficile da capire per chi inglese non è, che ricorda come il Regno Unito nel 1940 pur trovandosi a combattere da solo contro un’ondata di nemici, alla fine ha vinto contro gli invasori continentali. Sono gli stessi continentali che oggi questi inglesi si trovano di fronte e ritengono che ancora una volta saranno in grado di sconfiggere. Anche se sono passati 70 anni da quei fatti e tante cose sono cambiate da allora, una fascia dell’opinione pubblica inglese, più ampia di quanto si pensi, si porta dietro questo ragionamento».
I primi sondaggi sulle elezioni per il rinnovo del Parlamento UE indicano una frammentazione del voto. Ciò renderà ancora più difficile trovare un’intesa con Londra sulla Brexit?
«Molto dipenderà da come si conformerà questo Parlamento e quale sarà la maggioranza. Lo spettro di una maggioranza sovranista si sta allontanando e si profila una coalizione tra popolari, socialisti e socialdemocratici e liberaldemocratici. Ciò fornirebbe un Europarlamento in grado di continuare sulla linea attuale. Sempre che non si giunga ad un’intesa con Londra prima del voto, ma la trattativa appare complicata».
Vi sono partiti populisti come la Lega e il M5S che vogliono rivoluzionare la gestione dell’UE. Macron e Merkel puntano invece sulla continuità, pur rendendosi conto che alcune riforme saranno necessarie. Vede un possibile compromesso tra questi due fronti?
«No, il compromesso non lo vedo possibile. Lega e Cinquestelle dicono di voler rifare completamente l’UE, ma non dicono né come, né con quali priorità. Per cui confrontarsi con qualcuno che non sa è un po’ difficile. Mentre il fronte franco-tedesco punta alla continuità ma dovrà affrontare le riforme. Si tratta di riforme presenti all’interno della stessa alleanza franco-tedesca. Fra rigore e flessibilità ci si muove sul piano economico-monetario, vi è poi l’integrazione a livello sovranazionale. Si tratta di un dibattito tra persone che condividono uno stesso obiettivo europeo, quindi l’intesa è fattibile».
I Paesi del gruppo di Visegrad però non sono sulla linea franco-tedesca...
«No, però la cosa interessante è che questi Paesi hanno un atteggiamento critico nei confronti dell’UE, il caso della Polonia è il più evidente, ma hanno un’opinione pubblica che a larga maggioranza vuole restare nell’Unione. Quindi anche loro si pongono in una logica di riforme dall’interno dell’UE. Sia gli ungheresi che i polacchi sono critici sull’assetto attuale ma stanno ben attenti a non scardinare l’edificio europeo. Cosa che invece qualcuno dei sovranisti dice di voler fare».
L’UE si scontra con regolamenti «ostili», come il voto all’unanimità richiesto per modificare gli accordi di Dublino. Come portare avanti le riforme se bisogna mettere d’accordo 27 Paesi?
«Ci sono vari modi in cui immaginare il futuro dell’UE. Si può pensare una struttura sempre più intergovernativa nella quale i vari Governi stringeranno degli accordi là dove possono andare avanti. Oppure si può immaginare di scomporre l’UE in diverse dimensioni, con percorsi paralleli che permettano ai singoli Stati di fare in autonomia le cose che si sentono di fare, lasciando la porta aperta ad altri Stati se volessero poi aggiungersi. Questo è un modo per superare le diverse visioni. Certo lei ha ragione che con un’UE a 27 diventa difficile fare molte cose che vadano al di là dell’adesione comune ai valori fondanti dell’idea di Europa, ossia stato di diritto, democrazia, mercato, eccetera».