Il sestante

Capire la sofferenza? Facciamolo con una fiaba

Le dinamiche della sofferenza fisica e psichica raccontate con la Bella addormentata- Parla lo psicologo Lorenzo Pezzoli - IL VIDEO
Un quadro di Burne Jones, Sleeping Beauty, del 1880.
Carlo Silini
14.12.2019 06:00

La Bella addormentata è un codice che ci aiuta a descrivere la malattia, il disagio, le crisi. Così viene interpretata in uno spettacolo che avrà luogo a Mendrisio il 20 dicembre prossimo. Un modo per entrare nella logica della sofferenza. Parla Lorenzo Pezzoli (nella foto sotto), tra gli animatori del progetto.

Lorenzo Pezzoli, in che modo la fiaba di Rosaspina, più nota col nome di Bella addormentata può curare le persone in disagio?

«La fiaba in realtà non cura, ma aiuta a comprendere i percorsi nel disagio delle persone. In altre parole, la fiaba della Bella addormentata racconta che c’è una situazione di partenza che diventa critica: i genitori della principessa non invitano una delle fate alla festa per la nascita della bambina e questo ha delle ricadute che si verificheranno nel tempo. Quando la bambina compirà 15 anni si pungerà con un fuso e dormirà per 100 anni».

E cosa c’entra col disagio fisico e psichico?

«C’entra perché la fiaba ci fa capire che il disagio ha un tempo di sviluppo. E ci aiuta a capire che nel disagio psichico, nella sofferenza e nelle situazioni di crisi quello che viene a mancare è la dimensione di prospettiva. La giovane principessa che dovrebbe dare slancio al regno e alla sua continuità si addormenta. Un po’ come succede quando non si sta bene fisicamente o psichicamente».

Perché? Che cosa succede?

«Entriamo in una dimensione silente, ci fermiamo. O così sembra. La fiaba ci dice che questa perdita ha un tempo. Tutte le malattie, tutti i disturbi e le crisi ci costringono ad attraversare un tempo che sembra fermo. Ma in realtà di vita ce n’è. La principessa non muore, si addormenta, Ma questo tempo del sonno occorre attraversarlo».

E chi sta dall’altra parte? Chi cura il sofferente, il suo parente che ci vive insieme?

«Questo è il problema, anch’esso bene illustrato dalla fiaba: non è scontato riuscire ad entrare in contatto con le persone sofferenti ed essere efficaci, almeno come ce lo si aspetta, nell’aiutarle. È il destino di tutti i cavalieri che tentano di raggiungere la principessa addormentata nel regno che sono miseramente destinati al fallimento. Ma non perché non sono bravi: in fondo ognuno mette in gioco il suo eroismo e la sua capacità, ma perché non è il momento giusto».

Sì, ma allora, più che perdere tempo nel curare, varrebbe la pena di aspettare il momento giusto, no?

«Diciamo che la fiaba aiuta a disporsi nei confronti del disagio psichico, della sofferenza così come degli stati di crisi. Bisogna però capire che il momento giusto non lo decidiamo noi. Il momento giusto è quello in cui le cose prendono una certa piega perché c’è stato un tempo che ha permesso di maturare, per molti motivi... Allora si crea una possibilità di incontro, che è quella che sfrutta l’ultimo cavaliere a sua insaputa che , nella fiaba dei Grimm, non fa nulla di particolarmente eroico: non sfida un drago. La parte eroica consiste però nel fatto di esserci nel momento in cui si apre questa possibilità. E di esserci accettando la possibilità anche di morire come è successo agli altri prima di lui, cosa che lui sa bene ma che non lo trattiene dal tentare».

Fuor di metafora?

«Esserci quando c’è questa possibilità, per i curanti o per i familiari, implica anche esserci quando ci sono le spine, quando c’è l’impenetrabilità. Se rimaniamo lì, abbiamo anche la possibilità di vivere l’incontro. La fiaba, insomma, ci familiarizza con un modo difficile di stare nelle situazioni. Se la prendiamo dal punto di vista del cavaliere significa pensare che ci sono dei regni (cioè delle dimensioni individuali del soggetto) che si addormentano e che è difficile raggiungere».

Cosa vuol dire?

«Al di là della definizione clinica che possiamo usare per descrivere ciascun addormentato, quello che la fiaba ci dice è che le persone in sofferenza si fermano. Ma attenzione in quella sosta, più o meno lunga, non c’è morte. C’è sospensione, c’è una rottura della continuità della vita. C’è una impossibilità di progettazione dell’esistenza, una perdita di slancio. C’è tutto questo, ma non c’è morte. La fiaba dice anche che nell’ottica del curante o della persona vicina a chi soffre bisogna essere consapevoli che si è esposti ad una persona difficile e dolorosa. Perché quando l’altro non permette a nessuno di essere raggiunto e tu lo vedi comunque nella difficoltà, emotivamente ed affettivamente si dice anche nel linguaggio popolare: ’’ti fa morire’’. La fiaba allora ti suggerisce: accetta anche questo. Se rimani ci sarà il momento in cui un accesso si apre. E in quel momento sarà importante che tu ci sia».

La fiaba finisce col bacio del cavaliere che risveglia la principessa (sopra: una stampa di Gustave Doré). Insomma, alla fine c’è speranza per tutti?

«Questo è l’aspetto romantico della fiaba e ci dice che anche tutte le storie d’amore passano attraverso queste dimensioni. Da notare che sia nella versione tedesca che in quella inglese e italiana, la fiaba finisce con la parola morte: ‘E vissero felici fino alla morte’. Ed è curioso che la chiusura della fiaba sia connotata da questo vocabolo non neutro».

Che cosa vuol dire?

«Io la leggo così: la fiaba ci dice che nella vita non ti addormenti solo una volta. Le situazioni di crisi, di malessere e di disagio si ripetono. Ma la vita ripartirà al prossimo giro, perché così è la vita. Ripartirà anche il fatto che ti pungi col fuso, ma da altre premesse, e ti riaddormenterai. E ti risveglierai. È una fiaba con una certa circolarità che ci dice quello che in fondo sappiamo della vita. È una fiaba lunare».

Perché?

«Mi viene in mente pensando che è l’anno in cui ricordiamo lo sbarco dell’uomo sulla Luna. E l’uomo è come la Luna che, vista dalla Terra, ha momenti pienezza, ma anche momenti in cui se ne vede solo una certa parte e momenti in cui scompare. Il messaggio è chiaro: fidati, anche se non lo vedi, la luce torna. In questo senso la fiaba può parlare sia a chi sta vivendo una situazione di difficoltà: dura un tempo, fidati! Sia a chi cura: non disperare, la tua forza non sta solo in ciò che fai, ma nella tua capacità di restare lì anche quando tutto sembra inaccessibile».

Come nasce lo spettacolo che verrà messo in scena a Mendrisio?

«Nasce dalla lettura della fiaba di Rosaspina e dalla sua analisi che abbiamo sviluppato con gli studenti che poi l’hanno utilizzata per leggere la biografia delle persone e la loro sofferenza. Lo spettacolo è la storia di queste persone che sono state intervistate, e poi inserite all’interno della fiaba».

La trama: maledizione, sonno e bacio

Quella di Rosaspina è una fiaba tradizionale europea ripresa anche da Perrault e dai fratelli Grimm. Per celebrare il battesimo della figlia, un re e una regina invitano le fate del regno a farle da madrina. Tutte tranne una, che per vendicarsi scaglia una maledizione: «Prima che il sole tramonti sul suo 16. compleanno ella si pungerà il dito con il fuso di un arcolaio e morrà!». Così avviene. Una delle fate buone trasforma la condanna a morte in quella di 100 anni di sonno, da cui la principessa potrà essere svegliata solo dal bacio di un principe. E così fu.

Valentino Garrafa: il vecchio non faceva niente, ma poi...

Nella rivista Contatto. Pratiche intervento col disagio psichico, Valentino Garrafa (nella foto sopra), animatore socioculturale Servizio di socioterapia dell’Organizzazione sociopsichiatrica cantonale, che ospita a Mendrisio la pièce «Sonni e risvegli», spiega il senso dell’iniziativa in questi termini: «Rosaspina è una fiaba che invita il bambino e noi tutti a non aver paura dei pericoli della passività. Si potrebbe dire che la fiaba è esplicita e ci invita a raccogliere le nostre forze nella solitudine e questo processo ci aiuta a diventare noi stessi. Aspettare l’altro significa avere pazienza, comprenderne la necessità perché c’è un tempo individuale che nulla ha a che fare con i propri tempi o quelli, ad esempio, istituzionali».

Interessante l’esempio pratico legato all’ambiente di cura che Garrafa propone: «Mi ricordo con affetto di un signore che incontrai anni fa, che per un lungo periodo durato più di un anno non usciva di casa. Non usciva mai dal letto. Ci volle del tempo, ma un giorno una collega riuscì a portarlo ad un nostro centro diurno: lui si sedette. Per diversi mesi arrivò e si sedette. Senza dire niente. Senza fare niente. Sarebbe meglio dire che così sembrava, perché tutti i giorni usciva di casa, usciva dal suo letto. Il gruppo se ne fece carico. In questo caso più che di gruppo dovrei parlare di comunità. Quella comunità di individui che va a formare l’esperienza dei Club socioterapeutici, del Club ’74 e degli altri presenti nei centri diurni dell’Organizzazione sociopsichiatrica cantonale (OSC). Passò ancora del tempo e piano piano lo vidi cominciare a giocare a carte con altri due frequentatori del centro: sempre in apparente silenzio si “apriva al mondo”, si apriva all’incontro con gli altri. A volte un semplice caffè, nel momento giusto, può più di mille altri interventi. Il concetto di “accoglienza” è decisamente sottovalutato: non si tratta di una variabile di poco conto, direi anche in questo caso proprio il contrario. L’accoglienza è la premessa necessaria all’incontro. Con il tempo imparai a conoscere meglio quest’uomo, le sue vicissitudini, le sue difficoltà, le sue tristezze, le sue gioie e passioni. Era un uomo ricco d’interessi ed esperienze. Parlammo molto. Lo ricordo con grande piacere. Un giorno, nel Comitato del Club parlò della sua esperienza e di come arrivò al Centro diurno. Ci spiegò come fosse stato importante per lui poter andare in un luogo e poter stare come sopra descritto».

La pièce racconta il «mondo dello star male»

Venerdì prossimo, 20 dicembre, alle ore 10.00, al Teatro Sociale Casvegno di Mendrisio (sopra: il parco dell’OSC, foto archvio CdT) verrà messa in scena la pièce «Sonni e risvegli». L’entrata è libera. Protagonisti saranno gli studenti del terzo anno di Lavoro Sociale DEASS insieme a quelli del Conservatorio della Svizzera italiana che hanno realizzato il progetto all’interno del modulo Pratiche di intervento educativo col disagio psichico/Musica per gli altri con la collaborazione del Club ‘74 (OSC) e il Servizio per le dipendenze Ingrado.

Ispirandosi alla fiaba di Rosaspina, meglio conosciuta come la fiaba de la Bella addormentata, la pièce è incentrata sulla biografia di persone che hanno accettato di raccontare la loro storia e la loro sofferenza. Si ascolterà anche la voce di un operatore sociale che ha condiviso la sua esperienza di accompagnamento di persone con gravi disagi psicosociali. Presentando l’inziativa Lorenzo Pezzoli spiega: «È con il racconto che diamo voce a chi, in determinati momenti, l’ha persa; la parola si eclissa quando si entra nel lato notturno della vita, come scriveva bene la giornalista statunitense Susan Sontag in Malattia come metafora, quel lato occupato dalla sofferenza che prevede, per chi lo abita, una cittadinanza “più onerosa”. E se ha ragione questa scrittrice, ciascuno di noi, tutti quanti e nessuno escluso, nasce con due cittadinanze: una legata al regno dello star bene e l’altra a quello dello star male. Come Rosaspina ci capita di utilizzare, nella vita, entrambi i passaporti; nella rappresentazione percorreremo questi due regni».