Catastrofi naturali, c'è dark tourism dopo l’alluvione in Mesolcina?
«Ci sono ancora troppi curiosi e turisti nelle zone colpite dall'alluvione che complicano i lavori di ripristino. Queste persone, oltre a ostacolare i lavori, mettono inoltre in pericolo loro stesse e gli operai sui cantieri. Per questa ragione la Polizia cantonale è presente nelle aree colpite dove ha la possibilità di prendere provvedimenti». Queste parole di lunedì di Philippe Sundermann, responsabile comunicazione dello Stato Maggiore Regione Moesa, mostrano come le persone siano attratte da luoghi legati a tragedie, disastri naturali e più ampiamente dalla morte. Questa è più comunemente la definizione di dark tourism. Per capirne di più, per capire in particolare che cosa spinga le persone a visitare posti di sofferenza, ci siamo rivolti a Claudio Visentin, docente al Master di Turismo Internazionale dell’USI.
Professore, quali sono le ragioni che portano le
persone a recarsi sui posti delle tragedie per curiosare, scattare foto e fare
video? Ad esempio, come quando in autostrada ci sono gli incidenti e la gente
si ferma a guardare.
«È un termine che è già entrato nell’uso corrente da
quasi una ventina d’anni e si parla abitualmente di dark tourism. Molti
studiosi pensano sia una caratteristica fondamentale dell’animo umano.
Ovviamente pone delle implicazioni etiche, ma ricordiamo che la curiosità non
implica approvazione. Quello che voglio dire è che quando vediamo un incidente
autostradale ne siamo irresistibilmente attratti, ma questo non implica che
siamo contenti che sia successo. Quindi la maggior parte delle persone "sane", pur essendo dispiaciute che sia avvenuta una tragedia, sentono
l’attrazione, una certa curiosità per i luoghi di tragedia, dove comunque sono
avvenute delle cose importanti, sono avvenuti fatti di cui tutti parlano.
Quindi, in estrema sintesi, siamo inclini a pensare che sia un
aspetto fondamentale dell’animo umano - e parliamo di dark
tourism -, ma sottolineiamo il fatto che non implica necessariamente
morbosità o approvazione. È proprio un impulso molto naturale».
Perché la gente sente la necessità di immortalare i luoghi
dove sono avvenute delle disgrazie?
«Perché il luogo dove avviene un grande evento, un
evento di cui tutti parlano, si carica di un’aurea speciale, diventa un luogo di
cui si parla e quindi inevitabilmente finisce per dettare un’attrazione.
Hiroshima è una destinazione molto visitata in Giappone, nessuno è
contento di quello che è successo, però la tragedia che è avvenuta lì carica
quel luogo di significati particolari. Io sono stato, per esempio, a Sarajevo
dove è stato ucciso Francesco Ferdinando, all’angolo della strada dove viene
ucciso il principe ereditario d’Austria scatenando una guerra che costa dieci
milioni di morti. E devo dire che ero irresistibilmente attratto dal fatto di
andare a vedere questo luogo, dove è avvenuta la scintilla di un incendio tanto
enorme. Il meccanismo è questo: quando succede un evento
tragico il luogo si carica di un interesse che magari prima non aveva».
A questo proposito, secondo lei esiste un confine tra
semplice curiosità e «dark tourism» oppure le due cose vanno insieme?
«Il confine, evidentemente, c’è. Non deve diventare
morbosa, non deve diventare una forma di compiacimento. Più che il problema in
sé della definizione, c’è un problema di gestione. Essenziale è non essere di
intralcio a chi sta conducendo operazioni di soccorso. Quando c’è una tragedia
bisogna preoccuparsi che le persone ricevano tutto l’aiuto di cui hanno bisogno
e non c’è certo bisogno di curiosi. E quindi quella è una salda soglia che va
rispettata e che va protetta: lasciare il campo libero ai soccorritori e non
avere nessuna compiacenza per chi è mosso solo dalla curiosità. Dopo di che, il
mondo è complicato. In Vallemaggia, per esempio, i danni sono concentrati in una
zona, ma nelle altre invitano i turisti a tornare, perché il turismo aiuta la
vita in valle. Dopo il terremoto in
Marocco il turismo si è completamente bloccato ma gli stessi marocchini
invitavano a tornare perché di turismo vivono e quindi, senza turismo, al
terremoto e alle rovine si aggiungeva la fame».
Quindi, quali sono le
raccomandazioni?
«La prima è di accettare che questo è un fenomeno naturale ma
senza compiacimenti e senza aspetti morbosi. Punto due, non recarsi sui luoghi
delle disgrazie quando sono in corso i soccorsi per non intralciare l’opera dei
soccorritori. Punto tre, chiedere alle popolazioni dei luoghi stessi. Se le
persone che vivono in quei luoghi hanno piacere che i visitatori tornino, perché
magari danno una parola di conforto e perché aiutano l’economia locale, allora
si può andare, magari anche prima di quello che si sarebbe pensato. In
questo caso la comunità locale è il vero referente a cui bisognerebbe fare
capo».
Concludendo, il caso più specifico della Mesolcina può
essere considerato un fenomeno di «dark tourism»?
«Sì, le catastrofi naturali sono senza dubbio una
forma di dark tourism. Ovviamente c’è un turismo più marcatamente dark e
un turismo diciamo grigio, laddove è avvenuta una tragedia ma non di portata epocale.
Quindi le catastrofi naturali sono indubbiamente una forma di dark tourism.
Ovviamente, poi, ciascuno deciderà quanto dark, quanto scuro. È chiaro che non è paragonabile, ad esempio, ad Auschwitz, dove pure vanno milioni di turisti ogni anno».