«C'è voglia di ricostruire a Gaza, e i bambini sono la speranza»

«Non si può ricostruire senza la formazione, senza un’educazione basilare che ti apra la mente. Prima ancora di pensare al cibo, o agli ospedali, bisogna investire sulla scuola e sul futuro dei giovani. È un passaggio necessario». Spiega così, in un’intervista esclusiva al Corriere del Ticino, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme, di ritorno da Gaza. Ma da dove iniziare a ricostruire in tal senso? Lo chiediamo direttamente al cardinale. «Abbiamo iniziato - spiega - con 180 bambini, ovviamente non solo cristiani, nelle tende, nelle cucine, con mezzi di fortuna, senza lavagne. Ora cerchiamo case che siano più o meno abitabili per portare lì la scuola e, quando si potrà ricostruire, ricostruiremo. Ma bisogna cominciare e basta. Non c’è un modo univoco per farlo. L’educazione è la base del futuro dei ragazzi di Gaza, e da qui partiamo».
Un futuro diverso
È la quarta volta, dall’inizio del conflitto a Gaza, che il patriarca di Gerusalemme è entrato nella Striscia. Nessuno ha fatto tanto. Segno sicuramente del riconoscimento istituzionale e personale che danno al cardinale. «Non mi sono mai chiesto il perché, mi chiedo solo cosa debba fare come pastore. La prima cosa è metterci la faccia, sicuramente esserci, essere presente, essere chiaro. Poi dobbiamo tenere le porte aperte. Non diventare parte di alcuno scontro ideologico. Non è facile, in questa situazione polarizzata, dire la verità, chiamare le cose con il loro nome senza essere parte dello scontro. A volte ci si riesce, altre volte no, ma fa parte del gioco».
Sin dall’inizio della guerra, il cardinale Pizzaballa ha tenuto aperti molti canali, con diversi interlocutori. «A porte chiuse, dietro le quinte, i canali sono più facili. Bisogna evitare di fare le cose sempre di fronte alle telecamere. Ci sono cose che, per essere reali e vere, devono essere fatte così. Siamo convinti che Gaza debba voltare pagina e avere un futuro completamente diverso. Non spetta a noi entrare nelle questioni politiche. Restiamo fermamente contrari all’uso della violenza, ne abbiamo visto le conseguenze. Il nostro ruolo non è quello di entrare negli organi governativi. Tutto ciò che è necessario e possibile dal nostro punto di vista come Chiesa è aiutare, attuare, proseguire in un processo che porterà stabilità a Gaza e non solo. Ovunque, siamo pronti».
La preoccupazione dei locali è che cali il silenzio, altri vogliono lasciare. «La gente a Gaza sa che oramai si parla meno di loro, per questo ci chiedono di tenere alta l’attenzione. Questa visita è stata accolta con maggiore entusiasmo, forse proprio perché ha fatto loro piacere il fatto che siamo rimasti. Quelli che si stanno organizzando per partire sono scettici, anche perché parlano con quelli che lo hanno già fatto, e molti non se la stanno passando bene».
Il ruolo della Chiesa
Rispetto alle visite precedenti, il patriarca ha percepito un sentimento diverso tra la popolazione locale. «Ora la guerra - ha detto Pizzaballa - spero sia finita, ma il conflitto e i problemi sono ancora lì. È giunto il momento di guardare avanti e di non rimanere concentrati solo sulle conseguenze negative della guerra. Tutti hanno visto le foto di Gaza. Ho avvertito il desiderio di tornare alla vita. Certo, le persone vivono ancora nelle tende, in condizioni di miseria, la maggior parte delle scuole sono ancora chiuse, gli ospedali hanno problemi, ma ci sono anche alcune differenze. Come il cibo, che ora c’è, anche se non tutti riescono a comprarlo. Ho visto che hanno aperto alcuni ristoranti, sono vuoti, ma c’è la volontà di voltare pagina. Speriamo entrino presto anche tutti i medicinali e le attrezzature mediche. Ma rispetto alle visite precedenti - l’ultima risale a circa sei mesi fa -, ho notato un cambiamento in tutti. Mi è sembrato che ognuno, a Gaza, voglia riprendere la propria vita in qualche modo. Siamo stati (il cardinale era accompagnato anche dal vescovo William Shomali, vicario generale e vicario patriarcale per Gerusalemme e la Palestina, ndr) negli ospedali, ma anche all’università, a vedere gli studenti fare lezione in condizioni molto precarie. Ma volevano ricominciare, volevano tornare alla vita normale il prima possibile».
Il cardinale ha sottolineato come si tratti di una situazione fluida, che cambia in continuazione. «Con l’aiuto di Dio, le nostra priorità saranno medicinali e attrezzature mediche. Non c’è bisogno di portare cibo o altre cose. Poi le cose cambiano ogni giorno, quindi è molto difficile prevedere cosa sia necessario fare. Perché una volta che decidi una cosa, nel giro di una settimana le cose possono cambiare di nuovo. In ogni caso, dobbiamo essere molto pronti a vedere cosa è necessario ed essere proattivi. Il nostro ruolo, come Chiesa, è anche quello di facilitare, di creare questa rete con altre organizzazioni per essere presenti e supportare il più possibile. È vero che la maggior parte delle cose sono sul mercato, ma anche se si hanno soldi in banca, le banche non funzionano. Quindi se non si ha accesso alla moneta elettronica, sarà difficile per loro acquistare».
Le domande sul domani
La situazione è ancora tremendamente complicata, insomma. Il cardinale spiega che, nonostante la situazione catastrofica in cui la popolazione sta vivendo, si vuole vivere di nuovo. «Vogliono parlare del futuro. La nostra comunità voleva celebrare il Natale con gioia. Naturalmente, allo stesso tempo, stanno emergendo tutte le domande messe da parte in questi due anni. E noi? E il futuro? E i bambini? Tutto ciò, fino ad ora, era in una sorta di modalità di sopravvivenza. Ora, tutte le domande sul futuro sono lì e molto concrete».
E allora viene da chiederselo: ma quale futuro? «Il piano Trump, che spero prosegua - ha spiegato il patriarca - non è così semplice come la gente potrebbe pensare, ma è l’unica tabella di marcia che abbiamo. Ci saranno molte difficoltà riguardo alla consegna delle armi, molte incomprensioni. Penso che i nostri Paesi e coloro che hanno relazioni con Hamas dovrebbero impegnarsi molto in un’opera di convincimento. E siamo convinti che Gaza debba voltare pagina e avere un futuro completamente diverso».
Il significato della speranza
Il cardinale Pizzaballa ha incontrato molti bambini, sia della comunità cristiana sia della comunità islamica. Ciò che è sorprendente, per il patriarca, «è vedere così tanti bambini per strada, in mezzo al nulla, proprio mentre dovrebbero essere a scuola. E nonostante tutto, sono rimasti puliti. In mezzo a montagne di immondizia ovunque, nel centro della città. Sono convinto che i bambini abbiano salvato la nostra comunità e non il contrario. Il loro desiderio e il loro atteggiamento gioioso hanno mantenuto viva anche la nostra comunità. Ecco perché le scuole sono una priorità».
Problemi che non si riscontrano solo a Gaza. «I problemi sono ovunque. Sapete dei problemi in Cisgiordania. La situazione rimane molto dolorosa, con i continui scontri con i coloni. La società israeliana, frammentata, vive un momento politico molto problematico, molte discussioni ovunque. In Siria i cristiani sono un terzo rispetto a prima della guerra, e c’è ansia per il futuro, così come in Libano, dove la situazione economica è complessa. Sembra che, se si guarda la situazione dal punto di vista europeo, sarà molto complicato parlare di speranza. Ma a Natale celebriamo il significato della speranza per noi».
Prosegue, poi, il cardinale: «Dobbiamo entrare in questa realtà così com’è. Ma in questa realtà, non possiamo limitarci a denunciare, accusare e biasimare, ma dobbiamo anche impegnarci nella ricostruzione, diventando coloro che vogliono comunque promuovere, nonostante tutto, la ricostruzione dalla devastazione umana e anche contribuire il più possibile alla ricostruzione del territorio, soprattutto nei luoghi più feriti come Gaza. E devo dire che è stato molto interessante, per me, ogni volta. Per me, è una lezione vedere come riescano a essere gioiosi nonostante tutto, soprattutto la nostra comunità, i loro figli. I bambini sono meravigliosi, pieni di vita, pieni di desiderio e di gioia per le piccole cose. Forse qui siamo così abituati ad avere tutto e anche a pretendere così tanto da tutto. Per questo, le piccole cose sono così gioiose, felici».