Cele Daccò: I cent’anni di una illuminata mecenate

Come sarebbe Lugano senza l’Università della Svizzera Italiana, lo si può solo immaginare: l’ex Ospedale civico lasciato vuoto; niente istituti né corsi accademici e diplomi di post-grado; un orizzonte culturale arido. Prospettiva triste, se raffrontata a quanto realizzato, invece, vent’anni fa. Eppure questo sembrava il destino allorché – benché approvato dal Gran Consiglio nel 1985 ma respinto da un referendum nel 1986 – il progetto del Centro Universitario della Svizzera Italiana (CUSI) fu affossato; fine ingloriosa e in apparenza definitiva di centocinquant’anni di un dibattito nel Cantone Ticino per un’accademia, avviato da Stefano Franscini nel 1844, subito arenatosi sulle secche delle ristrettezze economiche, a tratti ripreso e abbandonato. Tuttavia, solo un decennio dopo la bocciatura del CUSI, il 3 ottobre 1995 il Gran Consiglio approvava la legge per l’istituzione dell’USI, inaugurata il 21 ottobre 1996.

All’esito contribuì, è noto, l’impegno personale del consigliere di Stato Giuseppe Buffi, col sostegno dei suoi consulenti, da Mauro Baranzini a Sergio Cigada, da Luigi Dadda a Remigio Ratti e Lanfranco Senn. Alla crescita diedero inoltre impulso, in modo discreto e deciso, i «benefattori» anonimi annunciati, il cui anonimato sollevò inizialmente curiosità, dubbi e apprensioni circa l’indipendenza dell’ente universitario. Perplessità dissipate, tuttavia durante la conferenza stampa per illustrare i piani del Campus, il 29 dicembre 1998, quando si apprese trattarsi di un’unica benefattrice – e privata cittadina – il cui unico intento, come in tutte le attività sue di mecenate, era sostenere un progetto a favore di cultura e ricerca. Non fu questo il primo gesto concreto di Celestina «Cele» Daccò di tal effetto. E neppure l’unico.
Era da quarant’anni infatti – da quando si trasferì, nel 1954, a Montagnola con il marito, l’industriale milanese Aldo Daccò – che assieme al consorte offriva benefici alla comunità: un filare di cipressi alla chiesa di Sant’Abbondio a Gentilino nel 1961; la corrispondenza autografa con Hermann e Ninon Hesse, loro vicini di casa, al comune di Montagnola nel 1962; la casa vacanze chiamata da Aldo, cattolico devoto, «La Madonnina», ad Altanca per i fanciulli della Collina D’Oro, nel 1964 e, dopo la scomparsa del marito, l’organo Hammond, sul quale s’esercitava, alla Scuola di musica di Montagnola nel 1975. Ed era da quinquennio, da quando nel 1992 incontrò e prese a stimare, lei laica, monsignor Eugenio Corecco, vescovo di Lugano, che Cele aveva iniziato a soccorrere con finanziamenti modesti, poi con somme sempre più sostanziose, sino al totale di 12 milioni di franchi, l’avviata Facoltà di Teologia.

Sicché quando l’USI, appena fondata, rivelò l’urgenza di edifici ausiliari e il consigliere di Stato Buffi le presentò in un colloquio queste necessità, Cele semplicemente chiese – rammenta – «quanto servirebbe»; e con un capitale personale di 17 milioni di franchi contribuì tramite la Fondazione «Daccò» per 5.5 milioni al fabbricato destinato alla facoltà di Teologia e per 11.5 agli altri stabili: finanziamenti considerevolissimi, anche in rapporto ai 6 milioni concessi dal Cantone Ticino, ai 2.5 della città di Lugano, agli 11.8 della Confederazione, ai due di fondi propri dell’USI e ai tre di un prestito, per coprire i 41.5 milioni di realizzazione di Campus, Aula magna, Padiglione rosso, stabile di Teologia, parcheggio coperto. Somme e preventivi freddi, a prima vista, dietro i quali opera tuttavia un’eredità di dedizione e impegno con un punto d’incontro: il patrimonio creato pure dai sacrifici delle generazioni di maestranze della LIASA – l’industria fondata da Aldo nel 1936, subito affermatasi – e l’abilità di Cele nel rivalutarlo, indirizzati in progetti all’insegna del progresso sociale e culturale comune.

Lunedì 27 maggio 2019, compiendo cent’anni, Cele potrà quindi ripercorrere, appagata, il secolo vissuto intensamente: gli anni milanesi, quelli a fianco di Aldo, poi i quasi dieci lustri nel solco del suo esempio proseguendo idealmente e di fatto l’impegno dell’industriale-umanista – e non se ne contano molti in Italia, oltre Adriano Olivetti – nell’investire quote importanti dei redditi d’impresa a vantaggio di quadri e operai, del loro intorno famigliare e sociale, persino in senso più esteso di tutta la società. E la comunità di Lugano con l’USI possono, e dovrebbero, stringersi riconoscenti attorno a Cele Daccò per festeggiarne l’attenzione operosa, mediante la sua Fondazione, alle proprie iniziative.
Una coppia di benefattori

Nato a Gaggiano nel Milanese nel 1896, figlio di un garibaldino, Aldo Daccò si afferma quale imprenditore di successo dal 1920 nell’import-export, riunendo alcuni degli addetti con i quali avvierà a Orago, nel Varesotto, nel 1936, le fonderie Leghe italiane antifrizione SA (LIASA), di fortuna e fama internazionale. Sportivo «militante», con record mondiali imbattuti in gare di fuoribordo nel 1930-31, si distingue anche per la struttura «a partecipazione sociale» della ditta e per l’ampio mecenatismo, sia in Italia, sia in Svizzera, dove si trasferisce nel 1954 prendendo dimora a Montagnola, accanto alla Casa Rossa di Hermann Hesse, con cui intrattiene una singolare corrispondenza. Dopo un’esistenza intensissima, si spegne a Milano nel 1975.
Celestina «Cele» Pasquali, nata a Milano nel 1919, insegnante e infermiera, conosce Aldo per caso, nel 1944, assistendolo nella riabilitazione da un incidente d’auto. Si sposano nella chiesa di Loreto a Lugano nel 1945. Celestina affiancherà Aldo per tre decenni nelle iniziative benefiche, dalla promozione dal 1960 con mezzi ingenti del Centro di ricerche cliniche per malattie rare e dell’Istituto di ricerche farmacologiche «Mario Negri» di Ranica (Bergamo), al dono della baita Madonnina d’Altanca nel 1964 a quello dell’omonimo ambulatorio a Orago nel 1972. Rimasta vedova, Cele Daccò continua, nello spirito di Aldo, a finanziare attività culturali, sociali, di ricerca, poi culminate nel cospicuo sostegno alla Facoltà di Teologia e al Campus dell’USI di Lugano.
Azzolino Chiappini: il "miracolo" di quell'incontro tra Cele Daccò e mons. Corecco

«Sembra una favola, uno di quei racconti meravigliosi che nei tempi antichi, nel Medioevo, ricordavano l’origine di importanti istituzioni. Una signora, un giovane vescovo che nulla o pochissimi motivi avrebbero fatto incontrare (anche perché orizzonti e strade erano molto diverse, la signora non opposta, ma estranea al mondo ecclesiale) si trovano: scocca la scintilla e nasce qualcosa di nuovo, e negli esiti successivi, non previsti allora, di grande. In altre epoche si sarebbe parlato di miracolo, noi, almeno possiamo parlare di evento provvidenziale. Il giovane vescovo vuol fondare in Ticino una facoltà di Teologia, ma dispone di pochi mezzi; Cele Daccò colpita dal coraggio del vescovo Eugenio Corecco, ma anche sensibile alla cultura, all’educazione, entra nel progetto, assicura per il lungo periodo iniziale l’esistenza della Facoltà di Teologia di Lugano. Già è stato detto e scritto, ma è giusto ricordare in quest’anniversario: senza il coraggio di Eugenio Corecco e senza il sostegno di Cele Daccò, la facoltà di Lugano non sarebbe (o non così facilmente) nata. Possiamo dire di più, usare ancora il termine di «miracolo»: senza che lo si volesse, la nascita della FTL ha dato avvio e favorito il processo che ha portato all’USI. Giuseppe Buffi ha varie volte ripetuto che il coraggio di Corecco gli ha dato motivo per sostenere l’università di cui già si parlava, e per appoggiare l’iniziativa luganese da cui verrà l’USI. Anche il campus della città è sorto con il determinante appoggio di Cele Daccò. Si può così affermare, senza limitare i meriti di altri, che senza quel incontro, quel riconoscersi tra la signora e il vescovo, non avremmo, o almeno non nei tempi e modi che abbiamo vissuto, il campus dell’USI che vede in questo momento un nuovo sviluppo. Per quanto riguarda la Facoltà di Teologia, un’altra volontà di Cele Daccò ha un significato e conseguenze importanti: ha voluto che trovasse posto nel campus luganese, favorendo così ciò di cui la Teologia ha bisogno, per non essere disciplina da «museo»: l’incontro, lo scambio, il dialogo con la società, la cultura, il mondo concreto in cui è inserita. Ciò significa per la Teologia anche la responsabilità non di dare risposte preconfezionate a tutte le questioni, ma il contributo autentico a una società più umana, più luogo di incontro, non di scontro, ma d’accoglienza e di comprensione reciproca. Soprattutto oggi, in un mondo in cui culture, religioni, storie sono sempre più vicine».