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Cesare Lombroso e il piccolo incendiario di Minusio

Il celeberrimo criminologo alle prese con un singolare caso di devianza minorile ticinese - Una vicenda di 120 anni fa ricostruita da Renato Martinoni
Il protagonista della vicenda. In calce alla foto qualcuno ha aggiunto a mano la scritta: «D. Emilio a. 13 criminale». © fondo fotografico dell’Archivio del Museo «Cesare Lombroso» ,Torino
Carlo Silini
16.01.2021 06:00

È il 1900 e a Minusio c’è un ragazzo che preoccupa le autorità con le sue continue malefatte. Dopo l’ennesima intemperanza, il sindaco prende carta e penna e chiede consiglio a un luminare della nascente scienza criminologica. Una storia vera e sorprendente, ricostruita sull’ultimo numero de «Il Cantonetto» da Renato Martinoni, professore emerito di Letteratura italiana all’Università di San Gallo. L’abbiamo intervistato. Lo studioso consultato dal sindaco era Cesare Lombroso (nella foto sotto), celebre per la pretesa capacità di leggere nei tratti somatici delle persone la loro predisposizione alla vita criminale. Ma che cosa rispose l’esperto al Municipio del Locarnese? Facciamo un passo indietro.

Martinoni, la storia che lei ha ricostruito parla di un ragazzino difficile. Chi era e cosa ha fatto?

«Nato a Minusio nel 1888, Emilio Angelo D. è figlio di una donna non maritata madre di altri figli. Il “discolo” cresce pertanto in un ambiente difficile. C’è da immaginare che cominci presto con le marachelle. Dopo averlo incarcerato, perché ha dato fuoco a un pollaio e a un fienile, il commissario governativo scrive, nel 1900, quando non ha ancora compiuto dodici anni, che il ragazzo è stato già arrestato altre volte e tenuto in prigione a pane e acqua. Non solo non si è ravveduto, ma con le sue cattive abitudini, aggiunge il funzionario, “diventa ogni giorno più pericoloso”. Non potendo tollerare altre malefatte, e temendo il peggio, propone pertanto di internarlo in un istituto di correzione».

Come vengono gestiti nel Ticino casi simili, all’inizio del Novecento?

«Lo Stato non ha i mezzi giuridici né strutturali per fare fronte a un problema tanto serio. La situazione, per il mondo dell’infanzia, è dunque delicata. I vagabondi e i malfabene restano abbandonati a se stessi o vengono presi a carico dai religiosi, mentre le istituzioni sono latitanti. Le prime leggi, all’inizio del Novecento, regolano l’internamento di alcolizzati e vagabondi: si parla però di adulti, mentre per le strade continuano a circolare fanciulli “moralmente abbandonati” che passano la giornata a chiedere l’elemosina, in balia di malintenzionati e di approfittatori. Se per gli adulti che sgarrano si aprono le porte delle carceri o del manicomio, per qualche “discolo” meno sfortunato si ricorre al collocamento familiare o in istituti d’oltre Gottardo».

Nel caso di Emilio D. cosa succede?

«Viene rinchiuso più volte nelle carceri pretoriali e intanto il suo Comune non sa cosa fare. Allora qualcuno fa il nome di Cesare Lombroso, il celebre autore di un libro intitolato “L’uomo delinquente”. Lo studioso è professore all’Università di Torino e fondatore del Museo di antropologia criminale. Noti dappertutto sono i suoi saggi sui caratteri anatomici, fisiognomici e psichici della criminalità, ma anche le teorie sull’origine atavica e le cause sociali della delinquenza. Chi meglio di lui può dare una mano a delle autorità prive di mezzi e di istruzioni? Così il Municipio di Minusio decide di indirizzargli una lettera».

Come reagisce Lombroso?

«Riscontra a stretto giro di posta. Segno che il caso lo intriga. Avanza anzi una diagnosi, peraltro prevedibile per chi conosce i suoi studi. Il “monello” locarnese soffre di epilessia psichica: di notte avrà pertanto delle convulsioni o delle vertigini. Il padre della “Scuola positiva criminale” propone di chiuderlo nel manicomio di Mendrisio, perché “la pazzia morale è una forma di alienazione”. Non solo: promette, appena potrà, di andare a Minusio a vedere il ragazzo. Intanto chiede di poter ricevere una fotografia e un referto del medico condotto. Dato però che si rifiuta di farsi fotografare, scappando appena vede l’usciere comunale, Emilio D. viene arrestato e tenuto in prigione (il carceriere che lo nutre a pane e acqua la chiama “pensione”...) per tre mesi di fila».

Che cosa vuol dire «pazzia morale»?

«Secondo le teorie lombrosiane si è criminali per nascita. La criminalità (che convive con l’assenza di senso morale) si manifesta nelle caratteristiche anatomiche, cioè nelle anomalie fisiche e nei caratteri degenerativi, che sono più vigorosi nelle fasce povere della società, dove circola l’alcolismo. Il “pazzo morale”, e questo vale per il “discolo” di Minusio, che dunque è un delinquente nato, non ha ritegni, valori, rimorsi. È incapace di distinguere fra il bene e il male. Non comprende l’immoralità della colpa».

È l’«epilessia psichica» la causa della pazzia morale?

«Osserva il “Maestro” che il carattere epilettico ha origini ereditarie. Ma può essere favorito da traumi, o da malattie infettive, e si manifesta attraverso accessi psichici improvvisi, provocando l’alterazione di affetti e sentimenti, specie nell’infanzia e nell’adolescenza. Quando poi il problema si manifesta in famiglie disastrate, la frittata è ancora più grande. Conseguenze dell’epilessia psichica criminosa sono l’impulsività, la tendenza alla menzogna, l’alternanza di stati d’animo, il raptus violento. Il “tipo epilettico”, scrive Lombroso, riunisce in sé tutti i caratteri del pazzo morale e del delinquente. Epilessia, pazzia morale e criminalità sono elementi correlati. Non è un caso che la maggior parte dei “pazzi morali” stanno in carcere e non nei manicomi».

Che idea si è fatto del celebre studioso, oggi sconfessato dalla scienza, e delle sue opere?

«Tanto Lombroso è stato osannato, per non dire venerato, in vita, quanto è stato disprezzato dopo la morte: anche se già ai suoi tempi c’era chi guardava con distacco ai suoi studi e alle sue teorie, considerandole pseudoscientifiche. Si sente forte l’odore dell’epoca e anche di una fede incontaminata nei metodi e nelle idee che rasenta il fanatismo. Il dogmatismo positivistico che sta dietro la sua visione delle patologie mentali e della criminalità lo porta, non solo a non mettersi mai in dubbio, ma anche a cadere in certe ingenuità: come quando sostiene pubblicamente la serietà di Eulalia Palladino, che si spaccia per medium e spiritista, esibendosi in vari paesi del mondo, affermando di essere in possesso di capacità paranormali, come la levitazione. In realtà era solo una furbacchiona. Una venditrice di fumo...»

Eppure...

«Viviamo nell’epoca dell’usa-e-getta ed è facile fare di tutta l’erba un fascio. Leggere Lombroso resta comunque molto istruttivo: non solo per gli studi più noti, quelli sul rapporto fra psiche (e tratti somatici) e criminalità, ma anche per altri suoi interessi di uomo onnivoro. Il lombrosiano “Archivio di psichiatria, scienze penali ed antropologia criminale”, è una miniera di studi e testimonianze su argomenti interessanti: come, oltre la delinquenza, le sue cause, i suoi effetti, lo spiritismo, la medianità, ma anche i tatuaggi e i gerghi della malavita. Incorniciate nel loro contesto, cioè storicizzate, le opere di Lombroso sono inquietanti: anche perché, dietro di esse, in quella che poi è stata chiamata la “Belle Epoque”, e che noi ricordiamo spesso con la moda, la nascita del cinema, una società elegante e apparentemente spensierata (non fosse che la cultura, specie quella espressionistica, stava segnalando da tempo le dolorose dissonanze di quel mondo), c’è uno spaccato tremendo di realtà. Quello della criminalità e della violenza sociale di fine Ottocento-inizio Novecento».

Come finisce la storia di Emilio Angelo D.?

«Lombroso ipotizza il “fondo epilettico” e quindi il carattere criminaloide del “discolo” locarnese. Dato che, come dicono i carcerieri inglesi, e come ama ripetere l’antropologo, è più facile trasformare un cane in una volpe che un ladro in un galantuomo, facile che Emilio sia destinato a diventare “un grande delinquente”. Non è forse un caso che i documenti che lo riguardano lo chiamino via via, in un terribile crescendo, “discolo”, “pazzo morale”, “criminale”. In occasione di una recente grande mostra torinese dedicata a Lombroso la foto di Emilio è stata esposta con un didascalia che lo dice addirittura “bambino omicida”. Eppure l’immagine ci mostra sì un ragazzino un poco baldanzoso, ma anche fragile, con poche “tare” fisiognomiche (la fronte sfuggente, l’aspetto infantile, i capelli castani). Tant’è vero che questa storia si conclude meno tragicamente di quanto si possa temere. Non in un manicomio criminale, come vorrebbe Lombroso, finisce il “monello” di Minusio. E forse neanche in un istituto “per discoli”, a Firenze, come ipotizza il Municipio di Minusio. I documenti ci dicono che Emilio D., rimasto orfano di madre, si sposa a ventitré anni. Avrà sette figli e morirà a trentotto per il calcio di un cavallo».

Due parole sugli altri protagonisti, il sindaco e il medico che ha redatto il rapporto. Cosa sappiamo di loro?

«Il sindaco, Adolfo Martinoni, appartiene a una delle famiglie patrizie di Minusio. Il medico condotto, Antonio Sciaroni, è figlio di locarnesi emigrati in Ungheria. Dopo gli studi a Budapest, torna in patria. Ancora oggi c’è chi lo ricorda per la sua umanità. È uno di quei dottori che, chiamati per un’urgenza, attaccavano la carrozzina al cavallo per addentrarsi nelle valli (a volte arrivando quando il malato era già morto). Nel suo referto scrive che nel volto Emilio ha l’aspetto di un satiro: ma poi dà l’impressione di non sottoscrivere le tesi lombrosiane».

Pur conoscendolo, lei non ha voluto divulgare il cognome del ragazzo...

«Mi è sembrato di capire che Emilio D. abbia dei discendenti. Tuttavia non ho voluto verificare se la sua vicenda sia conosciuta all’interno della famiglia. Per non creare inutili ambasce. E anche perché sarebbe potuta capitare, e certamente è capitata, altrove. Del resto la storia di Emilio, un ragazzo dodicenne che i documenti chiamano prima “monello”, poi “discolo”, quindi “delinquente”, infine “criminale” e “assassino”, sembra appartenere più al romanzo che alla realtà».