Illegale in svizzera

«Ci chiamavano zingari, non ci volevano affittare le case e ci denunciavano»

Fino agli anni Novanta la legge elvetica non permetteva agli stagionali di tenere con loro moglie e figli - Tanti vivevano nella clandestinità, come D. una donna di origini siciliane oggi residente in Ticino
(foto CdT)
Romina Borla
20.03.2019 06:00

Clandestina in Svizzera, da bambina e poi da giovane sposa. Una vita da celare, quindi, con la paura di essere segnalata alle autorità. Questa è la storia, tormentata ma a lieto fine, di D., una bella signora di origini siciliane che oggi risiede nel Luganese. «È stato un incubo che mi ha scioccata», dice. «Gli effetti li ho sentiti dopo, quando il permesso ce l’avevo. Quanta ansia! Se devi combattere lo fai ma è quando ti rilassi che crolli». Fino agli anni Novanta, lo ricordiamo, la legge elvetica non permetteva agli stranieri con un permesso di lavoro stagionale di tenere con loro moglie e figli. Alcuni li portavano comunque nella Confederazione ma erano costretti a nasconderli. Centinaia di migliaia di bambini hanno così trascorso la loro infanzia chiusi in casa, senza frequentare scuole e coetanei. Terrorizzati dall’idea che qualcuno li denunciasse e li allontanasse dalla famiglia. L’alternativa alla reclusione era di essere affidati a parenti nei Paesi di origine o lasciati nei collegi (ne sono sorti parecchi lungo la frontiera) e vedere i genitori poche volte l’anno. Nell’edizione del 13 febbraio 2019 vi abbiamo raccontato la storia di alcuni di questi bimbi ormai cresciuti e, il loro coraggio, ha spinto altri a contattarci. Come D.

Lei è nata nel 1964 in un paesino siciliano dove il denaro scarseggiava ma non le speranze. I giovani e i coraggiosi partivano per cercare fortuna. «Mio padre ha trovato lavoro come manovale nel canton Uri», racconta la donna. «Era uno stagionale, stava quindi in Svizzera 9 mesi l’anno. I miei fratelli ed io crescevamo in Italia, con la mamma, lontano da lui». Per riuscire ad ottenere il permesso annuale, e il diritto al ricongiungimento famigliare, bisognava lavorare almeno 5 (poi 4) anni di fila nella Confederazione. Però – osserva la nostra interlocutrice – alcuni datori di lavoro assumevano gli stranieri per periodi inferiori al dovuto, così a questi ultimi mancava il numero di settimane legali per considerare l’anno di attività e la conta doveva ricominciare da capo.

Nel 1968 la Valle del Belice, nella Sicilia occidentale, è stata colpita da un terribile terremoto che ha devastato paesi interi e causato la morte di centinaia di persone. «La nostra casa giù – due locali perché eravamo poveri – era piena di crepe», racconta D. «Avevamo paura. Nel frattempo mio papà è riuscito ad affittare una stanza in Svizzera e ci ha portati con lui. Avevo 4 anni». Il viaggio era estenuante. «Partivamo alle 5 di mattina e ci mettevamo due giorni per arrivare a Milano. Poi prendevamo il treno per Chiasso, dove fermavano i lavoratori per la visita medica. Controllavano che non fossero ammalati di tubercolosi. Mio padre doveva aspettare il risultato delle analisi mentre noi giocavamo senza farci notare. Poi passavamo il confine, nascosti». Dopo la prima notte, trascorsa in una soffitta dove l’uomo viveva insieme ad altri operai italiani, la famiglia di D. ha varcato la soglia dell’appartamento dove avrebbe vissuto per qualche anno: una minuscola stanza con un fornellino per cucinare.

«Eravamo illegali. Vivevamo in punta di piedi, senza parlare con nessuno. Nessuno doveva sapere della nostra esistenza. Non ci potevamo nemmeno ammalare perché andare dal medico o in ospedale significava venire scoperti e cacciati. Ogni tanto noi bambini uscivamo a giocare ma senza dare confidenza. Di frequentare la scuola nemmeno a parlarne. Eravamo impauriti, isolati». In un ambiente che la donna definisce ostile: «Allora il razzismo nei nostri confronti era forte. Ci chiamavano zingari, non ci volevano affittare le case, ci segnalavano alla polizia ma noi andavamo avanti. Non avevamo alternative». Quel periodo buio è finito quando il padre dell’intervistata ha ottenuto il permesso annuale e, di conseguenza, il diritto al ricongiungimento.

In seguito il nucleo famigliare è ritornato in Sicilia dove, a 20 anni, D. si è innamorata. Nel 1984 quello che è diventato il suo sposo ha trovato lavoro «come manovale» nel canton Uri e la legge dello stagionale ha colpito ancora. «Non volevo stare distante da lui e sono ritornata clandestina», spiega la nostra interlocutrice. «L’ho fatto per 6 lunghi anni, periodo in cui non sono riuscita a farmi assumere. Sapevano tutti che stavo qui. Persino il datore di lavoro chiamava mio marito per dirgli di farmi uscire dal Paese. Allora andavo in Sicilia ma ritornavo subito. Avanti e indietro. Mi sentivo un pacco postale». Allora la signora si ricorda di un’agente delle dogane, «una donna empatica», che le diceva: «Se lei sta qui, nascosta, a me non interessa ma qualcuno ci telefona tutte le volte che arriva e purtroppo siamo obbligati a controllare». «Così mi buttavano fuori», continua l’intervistata. «E la cosa più brutta è che quando passavo il confine dovevo lasciare un documento che ritornava al canton Uri, col timbro della polizia di confine. Volevano essere sicuri della mia partenza! Era umiliante: mi sentivo una criminale mentre volevo solo stare con mio marito». Nel 1985 la donna ha scoperto di aspettare un bambino. «Non avevo una cassa malati. Non avevo niente. Facevo su e giù perché stavo male. Che fatica. Mio figlio è nato in Italia ma l’ho subito portato in Svizzera. Anche lui, dunque, è stato per anni un bimbo clandestino».

Per fortuna, però, nella Confederazione non s’incontravano solo persone insofferenti nei confronti dei migranti. Molte, infatti, hanno dimostrato la loro apertura e solidarietà. Ad esempio la funzionaria delle dogane, una vicina che prestava sempre il telefono a D. e un amico di suo marito che le ha offerto un lavoro. «Stavo per gettare la spugna, per tornare definitivamente in Sicilia perché volevo che mio figlio andasse a scuola. Poi la proposta: vuoi fare l’aiuto infermiera? Mi sono buttata. È stato un anno duro: non ero portata per quel mestiere, ma ho stretto i denti con lo scopo di ottenere il ricongiungimento famigliare». E da lì la vita ha preso una piega diversa, nonostante l’ansia... «Non ho più voluto saperne di tornare in Italia per 7 anni. A parlarne adesso, certe cose sembrano uscire da un passato remotissimo invece si tratta di ieri. Almeno noi, la mia famiglia ed io, siamo stati insieme. C’è gente che ha percorso altre strade e il dolore era anche maggiore. Nel canton Uri, ad esempio, conoscevamo dei compaesani. Non hanno mai portato qui moglie e figli. Visto che erano analfabeti, erano dei nostri conoscenti emigrati con noi a scrivere lettere ai loro cari per conto loro e a leggere ad alta voce le risposte».

Immagine tratta dal film “Lo Stagionale” di Alvaro Bizzarri.
Immagine tratta dal film “Lo Stagionale” di Alvaro Bizzarri.

Migranti, famiglie irregolari e disaggregate

Vi avevamo raccontato la storia di Fabrizio di Berardino e Giuseppe Simonetta, figli di emigranti italiani che hanno trovato lavoro in Svizzera interna, cresciuti negli istituti di frontiera soli, tra malinconia e botte (vedi CdT del 13 febbraio). Entrambi sono passati dalla Casa del fanciullo, struttura fondata nel 1962 da un frate cappuccino, padre Michelangelo, in un quartiere di Domodossola chiamato «Abissinia». Una sorta di ghetto dove vivevano numerose famiglie provenienti dal Meridione, al nord per cercare fortuna.
L’istituto – si legge su «Gli “orfani di frontiera” alla Casa del fanciullo di Domodossola: delle famiglie di migranti disaggregate» di Saffia Elisa Shaukat («Itinera» 26/2014, supplemento della «Rivista storica svizzera») – aveva appunto lo scopo di sostenere le famiglie di migranti che lavoravano, accogliendo bambini dai 4 anni in su. La ricercatrice, tra l’altro residente nel Locarnese, ha analizzato una ventina di dossier degli ospiti della Casa, documentando quello che ha definito «il fenomeno di disaggregazione famigliare indotto dalla politica elvetica». Il caso della famiglia di D. – arrivato alla Casa del fanciullo nel 1982 all’età di 11 anni – è, per l’esperta, emblematico. Il padre era macchinista in un’impresa di costruzioni nella campagna bernese (permesso di stagionale). La mamma non lavorava ma risiedeva in Svizzera: «La sua presenza era probabilmente illegale o resa possibile da un visto turistico». Cinque i figli, nati in provincia di Teramo, in Abruzzo: due maschi sono stati collocati alla Casa del fanciullo, le due figlie più piccole (5 e 7 anni) sono rimaste in Italia da parenti senza frequentare le scuole, la figlia 16.enne non aveva un impiego e viveva nella Confederazione «immaginiamo illegalmente».
Un’annotazione dietro il formulario d’iscrizione di D. – «che appunto attesta l’esperienza di separazione e di illegalità di parte della famiglia» – sottolinea come questa situazione fosse normale. Dal documento in questione emerge la complessità delle strategie dei migranti: una combinazione di soluzioni temporanee che si modificava costantemente. Evidente, secondo Shaukat, «l’impossibilità di uno sviluppo equilibrato in un quadro famigliare stabile». Il saggio approfondisce inoltre il tema della mobilità costante dei bambini negli istituti di frontiera, delle loro difficoltà scolastiche e di integrazione. Infine la ricercatrice tratteggia una riflessione sul ruolo dei due Stati coinvolti nel fenomeno migratorio: «Il divieto al ricongiungimento famigliare da parte dello Stato elvetico si combina con l’assenza di protezione degli emigranti da parte dello Stato italiano. Così lo spazio di frontiera (...) si rivela una zona grigia ai margini delle politiche sociali delle due Nazioni. Si tratta di uno spazio di precarietà dove la Chiesa, attore tradizionale nell’accoglienza degli orfani e nel sostegno dei migranti, interviene per compensare la mancanza di protezione sociale (...)».