L'intervista

«Clima, ma le misure non riguardano solo la Svizzera»

Torniamo sul verdetto della Corte europea dei diritti dell'uomo - Ne parliamo con la professoressa di diritto dell'ambiente all'Università di Losanna, Anne-Christine Favre
© AP
Paolo Galli
09.04.2024 20:15

Professoressa Favre, oggi possiamo dire che la giustizia climatica è un diritto dell’uomo?
«Il fatto è, piuttosto, che esiste un diritto di essere protetti contro i rischi legati ai cambiamenti climatici. Questo diritto è già espresso nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, negli articoli 2 e 8. Qui a fare stato è quanto leggiamo nell’articolo 8 della Convenzione, ovvero il diritto a vivere ognuno la propria quotidianità senza essere esposti a rischi nefasti per la propria salute dovuti ai cambiamenti climatici».

Ma come si valuta l’impegno di uno Stato in termini di politica climatica?
«Gli obblighi in materia climatica arrivano da una somma di trattati internazionali. Basterebbe nominare l’Accordo di Parigi. Questi testi indicano la parte che ogni Stato è chiamato ad assumere in vista del risultato mondialmente auspicato: se un Paese non fa la sua parte, espone la propria popolazione - ma non solo, l’intera popolazione mondiale - a rischi. Non è un discorso di causalità, quindi, ma di rischi potenziali legati a una carenza da parte di uno Stato; rischi dimostrati rispetto ad alcuni obiettivi concreti. Da sottolineare è anche il fatto che il 70% delle emissioni di cui è responsabile la Svizzera viene prodotto all’estero. Parliamo di emissioni legate al modo di interpretare i consumi, ma anche all’importazione di prodotti che generano emissioni di gas serra all’estero. E la Corte ne ha tenuto conto, ha tenuto conto dell’insieme delle emissioni indotte dai nostri bisogni. E questo perché la responsabilità è dei singoli Paesi consumatori e importatori. Le misure da prendere quindi riguarderanno il nostro territorio, ma non solo».

Ecco, che cosa comporta concretamente questa decisione? Quali sono le conseguenze?
«La prima cosa da fare sarà dotarsi di un “carbon budget”, un bilancio del CO2. È un elemento che emerge chiaramente dal verdetto. Durante l’udienza, alla Svizzera è stata chiesta una traiettoria di riduzione. Ma la domanda non ha trovato una risposta valida. Ecco, la questione climatica si risolve in obiettivi e traiettorie. Non si può gestire, insomma, sul corto termine, bensì con obiettivi che siano chiari e coerenti, tenendo conto del fatto che ci si trova in un regime di solidarietà. La Corte l’ha riconosciuto: gli elementi di diritto sfiorano anche elementi politici. Per quanto attiene al diritto, gli obiettivi vanno raggiunti proprio perché c’è un obbligo di solidarietà, firmato dalla Svizzera attraverso vari accordi e convenzioni».

La CEDU è un organo sovranazionale: non si sostituisce al legislatore e al popolo svizzero?
«Lecito chiedersi: ma cosa dovremmo fare quando il popolo rifiuta un testo coerente rispetto agli accordi internazionali? L’unica risposta è che la politica è chiamata ad avere sempre un piano B. E la Confederazione ha dimostrato di averlo, dopo il 2021, andando a firmare alcuni accordi per ridurre le emissioni all’estero. In questo senso, la responsabilità della Confederazione è di avere soluzioni diverse per raggiungere i risultati richiesti. La Corte infatti non indica cifre da raggiungere, ma sottolinea che servono obiettivi più ambiziosi. Certo, ora se non ci si sforzerà di definirli, si andrà incontro a nuovi possibili verdetti sfavorevoli».

Onestamente, il primo pensiero di fronte al verdetto è stato: ma non siamo certo i peggiori!
«Certo, e da noi le misure costano care. In altri Paesi, meno. Anche per questo Simonetta Sommaruga, dopo il fallimento della votazione del 2021, aveva puntato su una serie di misure all’estero. La scelta delle misure è politica, appunto, e in Svizzera ci sono misure che si stanno concretizzando - lo dimostrano i vari piani cantonali -, ma anche obiettivi che vanno nuovamente calibrati. Il dibattito è aperto, ora. E vale per tutti i Paesi, tutti chiamati a fare la propria parte. Anche se poi fare la propria parte non basta a risolvere la questione nel suo insieme: la questione è mondiale. Non contribuire è come non pagare le tasse. Ora vanno chiariti gli obiettivi».

Siamo sorvegliati speciali?
«Il diritto internazionale non è una forma di sorveglianza. Ma quando in gioco ci sono i diritti fondamentali dell’uomo, vanno calcolati possibili controlli. Viene considerato, qui, che in gioco ci sono rischi per le vite umane. Tutto dipende da questo. E non vale solo per la Svizzera».