Come convivere con il virus e con i fantasmi di un incerto futuro

Abbiamo fatto un viaggio tra le aziende sul territorio, in un momento per tutti complesso, fatto di incertezze e fantasmi. Con un lockdown non ancora del tutto assorbito e un altro che qualcuno sente alle porte. E a volte basta anche solo la sensazione di essere vicini alla chiusura per ritrovarsi bloccati, tenuti in scacco come l’economia tutta.
Sentire arrivare la crisi
Il settore dei trasporti internazionali ha una particolarità rispetto alle crisi: le sente arrivare prima degli altri. Ne avverte l’inizio perché è abituato a guardare lontano. Il Ticino vanta una lunga tradizione in questo campo, ed è dunque da qui che inizia il nostro viaggio fra le aziende, piccole e grandi, del nostro cantone. «È già da fine gennaio che conviviamo con le misure di protezione che il virus ci impone», ci spiega Massimo Fattorini, direttore della Fattorini Autotrasporti. «Lavoriamo molto con il nord Italia, dunque fin da subito abbiamo dovuto prendere delle precauzioni». L’azienda di Novazzano ha frequenti contatti anche con la Svizzera tedesca. «Nella prima fase dell’epidemia oltre San Gottardo ci vedevano un po’ come degli alieni quando arrivavamo muniti di guanti e mascherine, ci prendevano in giro. Adesso la situazione è totalmente cambiata. Hanno capito che il virus non è da sottovalutare». A livello di attività, anche la ditta di trasporti ticinese risente della crisi. «Molte aziende hanno ancora orari di lavoro ridotti o meno personale. E poi c’è il problema del telelavoro: spesso quando arriviamo al carico dobbiamo aspettare ore e ore prima di ricevere i documenti necessari. Sì, la pandemia ha rallentato tutto, ha cambiato i ritmi produttivi».

Tante problematiche
La Rubis di Stabio è dal canto suo uno dei maggiori fabbricanti mondiali di pinzette di precisione. I suoi prodotti, utilizzati in ambito medico, nei laboratori, nell’industria orologiera e nella cosmetica, vengono in gran parte esportati. «A livello di infrastrutture viviamo una situazione fortunata», ci spiega Fides Baldesberger, CEO. «Sia gli uffici, sia la fabbrica hanno soffitti alti, locali vasti e areati. Anche nelle linee di produzione riusciamo senza problemi a garantire una distanza di più di due metri fra i collaboratori. E poi abbiamo plexiglas, mascherine e disinfettante dove necessari. Ovviamente abbiamo tutti paura che qualcuno possa portare il virus all’interno dell’azienda. È una paura condivisa da molti altri imprenditori». La Rubis, una quarantina di dipendenti, ha nel suo organico parecchio personale frontaliero. «Le mamme, in particolare, vivono una situazione di grande incertezza. Non sanno infatti se la scuola dei loro figli l’indomani sarà aperta o chiusa. Serve grande flessibilità». Ed equilibrio. Sull’equilibrio economico: «È un anno difficile. Dobbiamo prestare molta attenzione al flusso di cassa, alla liquidità. Una situazione che conosciamo bene, perché chi lavora nell’industria sa cosa comporta una crisi».
Esportando e importando
La Rubis vive anche e soprattutto di export. «Lavoriamo con grandi aziende. Una di queste è la Victorinox, che ha ridotto molto i suoi ordini per via del mancato arrivo dei turisti in Svizzera. Il produttore di coltellini, infatti, lavora soprattutto negli aeroporti e nelle località di vacanza. In generale dipende un po’ dai settori: alcuni reggono bene e non risentono della crisi, altri invece sono in chiara difficoltà. Varia parecchio anche da Paese a Paese. La situazione attuale è complessa per tutta l’industria». Anche la Audemars di Cadempino è attiva sul piano internazionale. Specializzata nella microtecnologia, produce in Ticino ma anche in Cina e nelle Filippine. Il suo stesso mercato è internazionale. Il CEO Mirko Audemars: «Il primo impatto lo abbiamo sentito quando è stata annunciata la chiusura improvvisa del nostro stabilimento in Cina per un mese. Tuttavia, quando hanno riaperto gli stabili, siamo stati i primi a ottenere l’autorizzazione. Questa esperienza è stata utilissima per la nostra produzione a Lugano». Dalla Cina sono state quindi importate esperienza e mascherine, in questo senso in anticipo rispetto ai tempi comuni. La Audemars ha subito stabilito protocolli accurati. «Implementando le migliori pratiche apprese in Cina già a fine gennaio, siamo stati in grado di continuare ad operare durante il lockdown, pur mantenendo un ambiente sicuro per il nostro personale». E oggi? «La Svizzera ha adottato una strategia di responsabilità individuale e organizzativa: un piccolo sacrificio in cambio di una collettività sostenibile. Perciò ancora oggi stiamo adottando un approccio molto conservativo per mantenere tutti i protocolli di sicurezza, come se fossero obbligatori, anche se non richiesti dallo Stato».
Un’incertezza che blocca tutto
Chi da subito ha promosso tali protocolli è l’Associazione industrie ticinesi. Del comitato di AITI fa parte anche Martino Piccioli, presidente della Plastifil SA, di Mendrisio, specializzata in articoli in acciaio e altre leghe, 150 dipendenti. «Noi stessi, all’interno della nostra azienda, ci siamo mossi sin dal 24 febbraio, introducendo distanziamento e disinfettanti, poi le mascherine e, dove possibile, il telelavoro. Poi è stato il turno del plexiglas». Storia di una lotta alla pandemia insomma, una lotta comune. Il fantasma è il virus che entra in azienda, «bloccando tutto», in un’annata già complessa, segnata dall’incertezza. È questa a tagliare le gambe all’industria. Lo conferma anche Piccioli: «L’economia, in particolare l’industria, è per sua natura legata agli investimenti. In questo senso vengono confermati meno ordini, i progetti di bloccano, alcuni rami si sono fermati, il che crea in effetti una enorme incertezza. È un momento molto difficile, è evidente. Anche perché non essendoci la possibilità di pianificare, risulta poi complicato far girare la ruota degli investimenti. In marzo e in aprile già lo sapevamo, sapevamo che fermarsi allora sarebbe stato molto pericoloso, proprio perché allora il lavoro c’era. Il resto della Svizzera e gran parte dell’Europa infatti erano aperti. Il rischio era quello di perdere per strada non solo degli ordini, ma dei clienti. Ed è pericoloso anche perderne uno soltanto, di questi tempi. Ora, di fronte a questa seconda ondata pandemica e ad altri fantasmi di chiusura, le preoccupazioni non mancano, anche perché molte aziende sono uscite stanche, ammaccate, dal primo lockdown. Bisogna allora fare in modo di non chiudere tutto, trovando un modus operandi per rimanere aperti in sicurezza». La rete di AITI è sempre aperta, così come quella tra singole aziende. «Mai come in questi mesi si è assistito a un simile confronto, a una simile collaborazione, frutto anche del sentimento del sentirsi tutti sulla stessa barca. Questa è una crisi che valica i settori».

Suddivisi in team
Anche nel settore bancario le misure hanno in parte cambiato la quotidianità. Lo sa bene Raiffeisen, diffusa capillarmente su tutto il territorio ticinese. Essendo una cooperativa le singole banche sono indipendenti, ma le direttive valgono per tutti. «Raiffeisen Svizzera ha emanato delle raccomandazioni generali» racconta Gianluca Cantarelli, responsabile relazioni pubbliche. «La parte non a contatto con i clienti è passata in home office laddove possibile. Altrimenti, a livello nazionale sono stati costituiti dei team che si alternano negli uffici a scadenza settimanale. La mascherina va indossata sempre negli spazi comuni». Riunioni, corsi e formazioni sono passati alla forma digitale. Telelavoro e team separati sono comunque stati consigliati anche alle filiali sul territorio. «E poi c’è la tempestività: tutti i collaboratori devono immediatamente segnalare sintomi. Così evitiamo di mettere in quarantena interi uffici».
La tempesta perfetta
Spostiamoci ora all’IBSA. Negli stabilimenti della multinazionale farmaceutica con sede a Lugano si lavora da sempre con standard di sicurezza elevati. Eppure la pandemia ha richiesto uno sforzo ancora maggiore. «Abbiamo degli impianti di produzione anche in Italia, a Lodi. Dunque ci siamo immediatamente ritrovati nell’occhio del ciclone» spiega Virginio Cattaneo, responsabile delle risorse umane. «A Lugano abbiamo invece una decina di unità molto interdipendenti fra loro, racchiuse in un raggio di pochi chilometri. Eravamo di fronte a una tempesta perfetta, ed è per questo che abbiamo dovuto reagire subito, a partire dal 21 di febbraio con la notizia dei primi casi di contagio in Italia. È stato costituito un comitato d’azione per monitorare, gestire e organizzare tutti gli interventi del caso. Abbiamo agito su tre pilastri fondamentali: la sicurezza dei dipendenti, la protezione dei posti di lavoro e la garanzia della disponibilità dei farmaci, in particolare quelli per i pazienti cronici». Le misure adottate sono molteplici: sanificazione periodica dei locali, controllo degli accessi tramite rilevazione della temperatura, dispenser di liquido igienizzante, distanziamento fisico, pannelli in plexiglas e mascherine ovunque. «Il grosso dell’operazione ha comunque riguardato il telelavoro» prosegue Cattaneo. «Il 90% dei collaboratori sono passati all’home office, dunque circa 220 dipendenti. Tutti gli operatori di produzione, invece, sono sempre stati presenti. A loro va il nostro ringraziamento». Attualmente, con l’arrivo della seconda ondata, IBSA mantiene il 50% dei dipendenti con qualifica impiegatizia in telelavoro. Da notare che nella prima fase, fra marzo e aprile, l’azienda farmaceutica ha messo a disposizione fino a 40 camere d’albergo per i collaboratori frontalieri. La misura del lavoro ridotto ha invece coinvolto solamente venti persone per circa tre settimane. Dal punto di vista del mercato, IBSA – che esporta in più di 80 Paesi – ha retto l’urto. «All’inizio della pandemia abbiamo conosciuto dei picchi, perché tanti hanno fatto scorte di farmaci» conclude Cattaneo. «Poi la curva è stata discendente, ma l’anno dovrebbe chiudersi in tenuta».

Uscirne quasi indenni
Sul fronte del settore primario, l’azienda Ortofrutticola Taiana di Davesco trova forza dall’essere uscita tutto sommato indenne dal primo lockdown. È pronta insomma, se proprio dovesse essere il caso, ad affrontarne un secondo. Sara Taiana spiega: «Il settore primario in effetti non si ferma. Nel corso della prima ondata, era aumentata la vendita ai privati, ma avevamo perso tutta la ristorazione». Alcuni clienti sono rimasti, altri – la maggior parte – sono tornati in fretta alle vecchie abitudini. «Molti, durante quel periodo, si erano fatti prendere dai timori del contagio, e avevano quindi optato per scelte diverse, per spese a chilometro zero, evitando il pericolo di eventuali assembramenti». Sono in cinque a lavorare nell’azienda a conduzione famigliare. Il lavoro non si può fermare. Non si è mai fermato. «Anche perché nel primario lavoro oggi a ciò che otterrò tra alcuni mesi. Non posso fermarmi. Ora, di fronte a questi spettri, ci siamo chiesti: “Piantiamo di più o di meno?”. Una situazione un po’ strana, nella quale non possiamo fare altro che muoverci secondo l’esperienza che già abbiamo fatto in passato». Anche qui si cercano equilibri, da vivere con le mascherine ma soprattutto con le distanze. «Nel primario la fortuna è che si lavora spesso all’aria aperta, distanziati gli uni dagli altri».
Le ripercussioni indirette
Anche le falegnamerie hanno personale dislocato in esterni. Sandra Cattani, della Cattani di Bironico, spiega: «Noi siamo in quattordici, con quattro dipendenti sempre fuori, nei cantieri. Per quelli che rimangono all’interno, quindi in sede, sono previste ampie distanze e, nel caso, l’utilizzo delle mascherine». Due soli casi di quarantene. Tutto insomma sta filando piuttosto liscio, sempre che non arrivi un secondo lockdown. «No, speriamo davvero si possa scongiurare, anche se il primo siamo riusciti a gestirlo. Bene o male, internamente, a livello di produzione in fabbrica, abbiamo trovato rapidamente la normalità. La posa era ferma, essendo i cantieri chiusi, e qualche ritardo lo si è accumulato anche a livello di entrate». Sandra Cattani ne è convinta: «Se ognuno farà i propri compiti, senza reclamare troppo, potremo farcela a evitare nuove chiusure». Molto ligi anche alla Chicco d’Oro. Michelangelo Storari spiega: «Ormai ci siamo abituati ai protocolli, avendo implementato da diversi mesi le adeguate misure di sicurezza. Ora le aggiorniamo man mano che cambiano le ordinanze. All’interno, valgono distanziamento sociale e mascherine, quando necessarie. Tendenzialmente cerchiamo di tenere separati gli operatori». Una trentina di dipendenti lavorano alla produzione. L’obiettivo è uno, e uno soltanto: «Mantenere sempre sostenibile la produzione stessa, evitando che si fermi». Anche perché, come fa notare lo stesso Storari, la fortuna dell’azienda – pur nel periodo sfortunato – è la sua natura alimentare. «Il nostro lavoro andrebbe avanti anche nel caso di un secondo lockdown, proprio come era proseguito durante il primo. Certo, tornerebbero a venire meno dei clienti, penso al settore della ristorazione in particolare, ma ci riteniamo comunque fortunati rispetto ad altri settori». Le ripercussioni sono indirette. «Per noi come per tutta la società».