Lavoro

Con i baby boomer in pensione il Ticino rischia grosso

Uno studio dell’USTAT lancia l’allarme sullo squilibrio demografico e la carenza di manodopera - Maurizio Bigotta: «Il tema del ricambio generazionale assume una centralità crescente» - Pesa anche l’incognita del frontalierato, oggi meno attrattivo
© CdT/Gabriele Putzu
Martina Salvini
30.07.2025 06:00

«Il mercato del lavoro ticinese sarà sottoposto a pressioni crescenti legate allo squilibrio demografico». A lanciare l’allarme, questa volta, è l’Ufficio cantonale di statistica (USTAT) che in uno studio pubblicato ieri ha messo sotto la lente il fenomeno dell’invecchiamento demografico, e soprattutto le sue ripercussioni sul mercato del lavoro ticinese. Con l’avvicinarsi all’età pensionabile dei cosiddetti baby boomer, infatti, il nodo del ricambio generazionale sul posto di lavoro assume «una centralità crescente». In particolare, aggravando la carenza di manodopera. Un problema che, come si evince dallo studio, in Ticino è più presente che altrove. Il nostro, infatti, è il cantone più anziano della Svizzera e «nei prossimi dieci anni la coorte demografica più numerosa raggiungerà l’età della pensione». Questo, sottolinea Maurizio Bigotta, responsabile del settore economia dell’USTAT e coautore dello studio con Vincenza Giancone, «porterà a un picco nel rapporto tra chi esce e chi entra nel mercato del lavoro, creando una pressione significativa sulla capacità di sostituire i lavoratori in uscita». Lo squilibrio appare del resto evidente se si osserva il cosiddetto indice di sostituzione, che misura il rapporto tra le persone di età compresa tra i 40 e i 64 anni e quelle tra i 15 e i 39. Ebbene, in Ticino nel 2023 questo indice è stato di 136. «Ciò significa che per ogni 100 persone tra i 15 e i 39 anni, ci sono 136 persone che hanno tra 40 e 64 anni», spiega Bigotta. E già questo dato fa ben capire lo scarto esistente tra le vecchie e le nuove generazioni. Non bastasse, il nostro cantone si distingue «in modo significativo» dal resto del Paese, visto che l’indice ticinese è molto più elevato della media svizzera (pari a 112).

Situazione in peggioramento

Se poi prendiamo in esame l’indice di sostituzione calcolato solo sui salariati - e non sul totale della popolazione - vediamo bene quanto la situazione sia peggiorata nel corso degli anni. «Nel 2012, si contavano già 138 persone di età compresa tra 40 e 64 anni ogni 100 con un’età compresa tra 15 e 39, uno squilibrio che, in dieci anni, si è ulteriormente ampliato fino a raggiungere un rapporto di 157 nel 2022», si legge nello studio. L’analisi utilizza poi un secondo indicatore utile a fornire un quadro della situazione: l’indice di sostituzione stretto, che confronta soltanto chi uscirà dal mercato del lavoro entro dieci anni con chi è entrato nell’ultimo decennio. Anche da qui emerge chiaramente un crescente squilibrio. Se infatti nel 2012 l’indice si attestava a 97, nel 2022 ha raggiunto 125, indicando quindi che il numero di lavoratori prossimi alla pensione ha superato quello dei nuovi entrati nel mercato del lavoro. L’imminente pensionamento della generazione dei baby boomer rappresenta quindi a tutti gli effetti «una transizione importante» dei prossimi anni.

Le sfide imminenti

Per il Ticino, questo si traduce in unico punto fermo: «Il nostro mercato del lavoro dovrà continuare a fare affidamento sulla migrazione per bilanciare l’ingresso e l’uscita della forza lavoro». Visti i tempi che corrono, però, la sfida appare tutt’altro che semplice. Finora, infatti, rispetto al resto della Svizzera il Ticino aveva avuto la possibilità di attingere a un bacino d’impiego ben più grande e a pochi chilometri da qui, quello italiano. Non a caso, spiega l’USTAT, «nonostante i risultati relativi alla popolazione residente indichino uno squilibrio generazionale maggiore in Ticino rispetto al resto della Svizzera, le statistiche sulle difficoltà di reperimento della manodopera mostrano meno difficoltà rispetto alla nazione». La presenza di lavoratori frontalieri, infatti, «ha contribuito, almeno in parte, a mitigare la carenza di manodopera in Ticino». E i lavoratori provenienti da oltre confine «hanno colmato alcune lacune demografiche e ampliato la base occupazionale e produttiva, rendendo il mercato del lavoro cantonale più ampio di quanto ci si aspetterebbe per una popolazione di circa 350.000 persone». Oggi, però, ci si scontra con un duplice problema. «Da un lato - spiega Bigotta - anche le regioni di confine sono alle prese con le nostre stesse sfide demografiche, mentre dall’altro lato il nuovo accordo fiscale rischia di rendere meno attrattivo il modello del frontalierato». Tutto ciò potrebbe quindi produrre l’effetto di acuire ulteriormente la carenza di manodopera e di avere pesanti ripercussioni sui settori economici maggiormente interessati dal problema. «Un mercato più competitivo potrebbe rallentare un po’ lo sviluppo di alcuni settori, soprattutto se le imprese faticano a trovare profili adeguati», dice Bigotta. Oppure, per assicurarsi i dipendenti, alcune aziende potrebbero puntare sull’offerta salariale. «La teoria economica suggerirebbe un aumento dei salari per attrarre personale. Tuttavia, le aziende potrebbero agire anche su altri fattori, come la flessibilità degli orari o la possibilità del telelavoro, sempre più considerati dai lavoratori».

Chi fatica di più

All’interno dell’economia ticinese, però, non tutti i settori sono ugualmente toccati dal problema della sostituzione del personale in partenza. Particolarmente sotto pressione, secondo lo studio, è il secondario, dove l’indice di sostituzione ha mostrato un aumento significativo tra il 2012 e il 2022, passando da 102 a 190. «Questo indica che il numero di lavoratori prossimi al pensionamento è quasi il doppio di quello dei nuovi entrati», dice Bigotta. Un valore compensato dal fatto che, nello stesso periodo, il settore ha registrato una leggera contrazione, suggerendo che le uscite potrebbero accompagnare almeno parzialmente un ridimensionamento della domanda di lavoro. «Senza dimenticare che, anche all’interno del secondario, ci sono rami che invece hanno conosciuto una notevole crescita occupazionale, senza vedere una crescita importante dell’indice di sostituzione. È il caso, ad esempio, del settore chimico-farmaceutico». Nel settore terziario, invece, l’indice di sostituzione stretto ha registrato un aumento più contenuto, da 95 a 112 in dieci anni, a fronte di una forte crescita occupazionale (+22,2% di addetti). Ciononostante, anche qui non mancano le ombre. «Il settore socio-sanitario e quello informatico presentano un problema di reclutamento di personale qualificato», rileva Bigotta. E ciò malgrado l’indice demografico sia meno preoccupante. «In questo caso, più che la dinamica demografica, entrano in gioco due fattori: da un lato il divario tra le competenze disponibili e quelle richieste dal mercato; dall’altro, l’importante espansione di questi settori, che genera un fabbisogno crescente di manodopera».

Il settore più toccato è il secondario

Tra i settori più toccati dal fenomeno c’è il secondario, a cui secondo uno studio commissionato qualche anno fa da AITI (l’Associazione delle industrie ticinesi) potrebbero venire a mancare nei prossimi anni tra i 5 e i 6 mila dipendenti. «Il problema si è acuito negli ultimi due anni», conferma in effetti il direttore Stefano Modenini, secondo il quale «sono aumentate le difficoltà delle aziende nel reperire la manodopera che va a sostituire chi lascia». Nel secondario, spiega del resto Modenini, su circa 29 mila lavoratori, oltre la metà dovrebbe aver superato la soglia dei cinquant’anni. «Consapevoli dell’andamento demografico, già dieci anni fa avevamo cercato di rendere attente del problema le autorità. Senza successo, perché è solo negli ultimi tempi che la politica sembra aver preso in mano la situazione. Nel frattempo, però, abbiamo accumulato un certo ritardo e ora tocca accelerare». Già, perché i giovani che entrano nel mercato del lavoro, oltre a essere meno di quelli che escono, hanno anche esigenze diverse. «Sempre più spesso - racconta Modenini - le nuove generazioni chiedono di poter lavorare a tempo parziale. Questo fa sì che alla difficoltà di reclutare manodopera si sommi il fatto di doverne assumere più persone, perché magari per arrivare a un’occupazione del cento percento occorrono due dipendenti anziché uno solo». Tutto ciò, sta portando sempre più aziende a riflettere sulle mosse future da attuare. «Da un lato, le aziende tentano di mettere in atto misure per attrarre i dipendenti, puntando sul salario o su altre misure che possano risultare interessanti. Dall’altro, però, è chiaro che si presenta anche il rischio di una delocalizzazione, perché della manodopera non possiamo fare a meno». Finora, il Ticino ha sempre avuto la possibilità di attingere al bacino lombardo, riuscendo a colmare il problema della carenza di manodopera attraverso l’assunzione dei frontalieri. Come mostra lo studio dell’Ufficio di statistica, però, con il nuovo accordo fiscale anche il frontalierato è diventato meno attrattivo. «Da parte nostra, abbiamo sempre detto che questo accordo sarebbe stato controproducente, e oggi ne abbiamo la prova. Se poteva essere utile da applicare nei comparti economici in cui i domiciliati subiscono la concorrenza dei frontalieri, nel secondario, dove questa concorrenza c’è molto meno, l’intesa fiscale finirà soltanto per creare problemi». Senza dimenticare, prosegue il direttore di AITI, che anche il personale frontaliere sta invecchiando. «Su 16.500 lavoratori con permesso G impiegati nel secondario, la metà ha più di cinquant’anni. In futuro, quindi, anche il numero di frontalieri è destinato a calare. E se ci aggiungiamo il peso fiscale del nuovo accordo, è evidente che il fenomeno diventerà ancora più grave». Secondo Modenini, «non possiamo ancora concludere che l’evoluzione demografica in atto porterà a uno squilibrio, ma certamente è opportuno che si facciano alcuni approfondimenti settore per settore per capire se i nostri timori troveranno conferma. Se così fosse, spetterà poi anche alla politica capire come poter intervenire per tamponare la situazione».