Da Beirut a Lugano

Se ci sarà la possibilità di ripristinare i voli di linea a Lugano, «metterò di certo tutte le mie competenze a disposizione affinché si possa realizzare questo importante obiettivo», dice Christian Castelli, nuovo direttore operativo dell’aeroporto, commentando l’apertura espressa dal CEO di Swiss, Dieter Vranckx. «Le nuove tecnologie aprono nuovi scenari - osserva Castelli -. Trent’anni fa i telefonini erano delle valigette, oggi ce li portiamo in tasca. Nell’aviazione, un domani potremmo volare in modo molto diverso».
Ma facciamo un passo alla volta. Prima Christian Castelli deve iniziare a indossare i panni di direttore operativo di Lugano Airport e capire come favorire lo sviluppo dello scalo. L’esperienza non gli manca. Sebbene non abbia mai diretto un aeroporto, ha ricoperto funzioni manageriali in quella che è una delle organizzazioni più importanti al mondo, l’ONU. «All’apice delle missioni di peace keeping, tra il 2016 e il 2017, l’ONU impiegava oltre 100.000 soldati in contesti operativi difficili, alcuni dei quali conflittuali - spiega -. Nel suo insieme il dipartimento di peace keeping operava una flotta che credo fosse la quarta o la quinta più grande compagnia aerea al mondo, con oltre 200 aerei e 600 elicotteri. In quegli anni io mi trovavo in Darfur ed ero il braccio destro del direttore dell’amministrazione. Lui si occupava di questioni strategiche, io più di logistica. Tra i vari compiti, dovevo gestire l’approvvigionamento delle merci che arrivavano a Port Sudan, a duemila chilometri da noi, dovevo pianificare i voli per una missione che contava all’incirca 20.000 soldati, 5.000 poliziotti e 5.000 civili e trasportava 50.000 passeggeri al mese in un territorio grande come la Francia. È stato il mio primo approccio all’aviazione».
Era solo uno spicchio di un’attività molto variegata che richiedeva capacità tecniche ma anche umane. «Nella mia esperienza con l’ONU ho avuto modo di lavorare con persone di 190 nazionalità differenti - afferma Castelli -. Non è sempre evidente, perché ognuno ha la propria educazione, la propria logica, il proprio modo di interpretare le cose. Quello che per me è evidente magari non lo è per il mio collega e viceversa. Un esempio, per quanto banale, è per esempio il valore che si da ad un minuto. A dipendenza della cultura di provenienza può avere più di un significato.È in queste situazioni che si impara a capire il modo di pensare delle altre persone e così a sfruttare al meglio le capacità di ognuno».
Christian Castelli aveva già dimostrato le sue capacità di mediazione quando, giovanissimo, fu eletto in Gran Consiglio per la Lega. Fu lui nel 1996 a redigere il rapporto che convinse un’ampia maggioranza del parlamento ad accogliere il pacchetto fiscale proposto dall’allora direttrice del DFE Marina Masoni. Allora Castelli era ancora uno studente alla Bocconi di Milano che si divideva tra l’aula della politica e quella di scuola. Finì per decidere di concentrarsi sulla formazione, che gli ha consentito di sviluppare una brillante carriera a livello internazionale, per conto del DFAE con l’OCSE in Kosovo e in Bosnia, poi con l’ONU tra Georgia, New York, Libano, Darfur, Nigeria, Somalia, Iraq e ancora Libano, dove ha vissuto dal 2008 a oggi.
«Mi sono occupato inizialmente di analizzare le pratiche gestionali e operative per migliorare l’efficienza della missione - spiega - e di assicurare che gli standard del dipartimento di mantenimento della pace fossero inglobati nei processi operativi».
In Libano ha vissuto con la propria famiglia, finché gli accadimenti l’hanno persuaso a darle un ambiente più stabile. «Ci siamo trovati molto bene a Beirut - premette -. È chiaro che la vita scorre diversamente che in Svizzera. Noi tendiamo a fare progetti a medio e lungo termine, in Libano si vive alla giornata. Un tratto comune in molte società che hanno vissuto una guerra».
Come è spiegato molto bene nel libro «From Beirut to Jerusalem» del giornalista Thomas Friedman, che ha vissuto per dieci anni in Medio Oriente. «Lui dice che all’inizio ci si preoccupa se succede qualcosa a 50 km di distanza - racconta Castelli -. Con il passare del tempo diventa una notizia come tante e ci si preoccupa solo se si sente sparare nella periferia della città. Ma alla fine ci si abitua anche a quello e se non sparano sotto casa non ci si preoccupa più».
Tra il 2019 e il 2020, però, quell’equilibrio si è rotto. «C’è stata una serie di eventi che mi ha fatto riflettere - spiega Castelli -. Prima le proteste di piazza, poi il Covid, infine l’esplosione al porto del 4 agosto 2020 hanno reso più difficile la vita quotidiana. Io volevo che i miei figli potessero concentrarsi sugli studi, come è stato per me da giovane. Così ho deciso di riportare la famiglia in Svizzera».
Ora i figli studiano in Ticino. Nei prossimi mesi, una volta conclusa la missione in Libano, anche Christian Castelli tornerà nel suo cantone, con l’obiettivo di sviluppare una visione chiara e complessiva per il rilancio dell’aeroporto di Lugano.
«È presto per esprimermi - afferma -, però sono convinto che l’aeroporto sia un asset strategico per la Città e per il Cantone. Io auspico di poter contribuire a valorizzarlo affinché sia ancora più utile ed efficace».