L'incontro a Lugano

De Bortoli: «Oggi non siamo più tutti americani»

L'ex direttore del Corriere della Sera: «Abbiamo creduto che il legame con Washington fosse cementato nella storia, l’Europa quindi non era pronta a questa disconnessione»
© CdT/Gabriele Putzu
Viviana Viri
19.09.2025 23:29

Dietro le recenti dichiarazioni ottimistiche sul nuovo Tech Prosperity Deal, l’ambizioso accordo annunciato a Londra da Donald Trump e Keir Starmer per rafforzare la cooperazione tra Stati Uniti e Regno Unito nei settori della tecnologia e della difesa, si cela una frattura ben più profonda: il ruolo sempre più marginale dell’Europa nello scacchiere globale e l’incertezza sul futuro delle sue relazioni con Washington. Una riflessione su cui Ferruccio de Bortoli, ex direttore del Corriere della Sera e del Sole 24 Ore, oggi editorialista del Corriere del Ticino, è tornato giovedì sera durante un incontro a Lugano, dedicato proprio al futuro delle relazioni tra le due sponde dell’Atlantico e organizzato dalla Fondazione informatica per la promozione della persona disabile. «Noi occidentali fatichiamo ancora ad accettare di essere ormai in minoranza. Abbiamo creduto che le sanzioni alla Russia sarebbero bastate a metterla in difficoltà. Ma non è stato così. Eppure, continuiamo a illuderci che i nostri valori siano universali e destinati a imporsi naturalmente». Per de Bortoli, l’Occidente ha vissuto per decenni dentro una narrazione rassicurante: quella secondo cui l’apertura dei mercati avrebbe condotto, quasi automaticamente, alla diffusione della democrazia. Ma oggi l’Europa si trova a dover affrontare un mondo completamente diverso da quello che aveva immaginato. La Cina ha vinto una battaglia economica decisiva, modificando gli equilibri globali. E gli Stati Uniti stanno seguendo una traiettoria sempre più autonoma. «Abbiamo creduto che il legame con Washington fosse consolidato dalla storia, quasi “cementato dalla fine della storia”. Invece, negli ultimi anni, gli interessi americani hanno cominciato a divergere, e lo hanno fatto anche legittimamente, dal loro punto di vista. Il problema è che l’Europa non era pronta a questa disconnessione».

L’UE, un «nano politico»

Ma ciò che inquieta di più, secondo de Bortoli è la trasformazione profonda della democrazia americana, un cambiamento che assume tratti sempre più autoritari e rischia di influenzare, in modo diretto, anche l’equilibrio istituzionale europeo. Intanto, l’Europa resta fragile e divisa, continuando a inseguire un sogno federalista ormai abbandonato dalle sue opinioni pubbliche. Trump, osserva de Bortoli, non andrebbe letto come un’anomalia passeggera. Al contrario, riflette perfettamente lo stato d’animo di un’America che non vuole più fare da “gendarme del mondo” e che vive la globalizzazione come una minaccia per la propria classe media. Un’America che oggi stringe alleanze con i grandi capitali del digitale, interessati a ridisegnare le regole democratiche per adattarle alla velocità del cambiamento tecnologico. «Si è affermata una logica pericolosa: nel nome del business si giustifica tutto. È in questo modo che nascono i regimi. Mi sarei aspettato più coerenza dai protagonisti della Silicon Valley: una cultura che si definiva aperta, oggi tace. E questo silenzio riguarda anche il mondo dell’informazione. Per decenni, l’Unione europea ha rappresentato una scelta di pace, crescita, benessere e difesa delle libertà democratiche. Oggi, però, si trova a un bivio. È diventata un nano politico nel confronto con gli altri grandi blocchi mondiali, e rischia di diventarlo anche sul piano economico. Le tecnologie strategiche che plasmeranno il futuro non passeranno più di qui, l’Europa ha perso il primato dell’innovazione. In questo contesto, la scelta di riarmarsi è stata, secondo de Bortoli, inevitabile e, forse, anche saggia: la sicurezza è tornata a essere un bene comune, da proteggere e da ricostruire. Ma resta un interrogativo di fondo: le opinioni pubbliche europee sono davvero pronte ad affrontarne le conseguenze? Paesi come la Finlandia, la Svezia o le repubbliche baltiche vivono la difesa come una questione esistenziale, radicata in un’esperienza storica di invasioni e sofferenze. La NATO, per loro, non è una scelta strategica, ma una necessità vitale. Ed è proprio su questo punto che la propaganda russa ha capito bene come usare la leva della paura nelle democrazie occidentali. Ne nasce una discrasia profonda: da un lato, la necessità concreta di rafforzare la difesa comune; dall’altro, opinioni pubbliche – in Francia, in Italia, persino nel Regno Unito – che non percepiscono il pericolo come reale. E questo scollamento, tra ciò che la politica tenta di fare e ciò che i cittadini sono disposti ad accettare, è forse la crepa più pericolosa che oggi attraversa l’Europa. Siamo tutti per la pace, certo. Ma non possiamo permetterci di ignorare i segnali della realtà.

«Due mondi diversi»

«Ventiquattro anni fa, dopo l’11 settembre, scrissi un titolo che oggi non userei più: “Siamo tutti americani”. All’epoca, la democrazia americana era percepita come unita, democratici e repubblicani si rispettavano, senza quel clima di delegittimazione reciproca che domina oggi. Erano uniti contro una minaccia esterna. Oggi, invece, sono divisi e le minacce vengono dall’interno. Ventiquattro anni dopo, sembra siano passati secoli: sono ormai due mondi completamente diversi».

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