«Dialogare è fondamentale ma la politica rimanga fuori»

Proteste nelle università. In nome della libertà di espressione e dell’integrità morale, alcuni professori dell’Università di Losanna si sono schierati accanto agli studenti, sostenendone le rivendicazioni. Una posizione che apre il dibattito sul ruolo degli atenei. Nel giorno in cui le proteste si estendono anche a Zurigo e Ginevra, ne parliamo con la presidente della Conferenza delle rettrici e dei rettori delle scuole universitarie svizzere (swissuniversities), Luciana Vaccaro.
Signora Vaccaro, il timore da lei espresso negli scorsi giorni riguardo a una possibile estensione della protesta verso altri atenei si è concretizzato. In che modo sta seguendo gli sviluppi delle occupazioni?
«Seguo con una certa apprensione gli sviluppi ora dopo ora. Ciò che mi preoccupa maggiormente sono le potenziali infiltrazioni esterne al mondo universitario. A Losanna, l’occupazione è iniziata giovedì con un’azione pacifica degli studenti, ma oggi non possiamo escludere la presenza di giovani provenienti da altri atenei e, forse, da gruppi esterni».
Dai campus americani la protesta pro-Gaza è dilagata Oltreoceano, raggiungendo Francia, Regno Unito, Australia, Italia ... È stupita che sia arrivata anche in Svizzera?
«No. Il dibattito sul tema è presente nella la società e le tensioni che stiamo vivendo si registrano a tutti i livelli, non solo all’Università. Quello che noi come rettori dobbiamo fare, però, è mantenere il dialogo con gli studenti».


Che cosa teme di più oggi?
«Che la protesta si sviluppi in maniera incontrollata e che superi i confini del mondo studentesco».
Ha parlato di «dialogo» e ci torneremo a breve, prima però le chiedo se, in queste ore, swissuniversities ha definito delle direttive comuni da condividere con le altre Università?
«Per ora, ci siamo limitati a una nota stampa in cui facciamo appello ad alcuni valori comuni. Sul tema delle occupazioni non abbiamo una linea comune, in quanto l’emergenza fino ad oggi non si era presentata».
L’eventualità che a Losanna si giunga a un intervento delle forze dell’ordine, come accaduto ieri a Zurigo, è però reale. Si arriverà a quel punto?
«Finché si possono svolgere attività di ricerca e formazione, e finché non ci sono atti illegali, noi cerchiamo di mantenere il dialogo. Tuttavia, questa valutazione spetta a ogni singola istituzione. Del resto, questi studenti sono adulti e si rendono perfettamente conto delle loro responsabilità».
Perché dialogare per lei è così importante?
«Gli studenti sono parte della nostra comunità: non sono qualcosa a parte. In queste ore stanno esprimendo un’inquietudine in un modo che non condividiamo, ma l’importante è parlarsi. L’Università non è un supermercato, dove se non ti piace la merce, ti giri e vai. Insomma, è importante non rompere la comunità».


Gli effetti sarebbero ancora più negativi?
«Probabilmente, tuttavia spetta alle singole Università valutare fino a che punto dialogare e a partire da quale momento bisogna usare la fermezza”.
Come ha interpretato la decisione del rettorato di UNIL di non presentarsi alle discussioni con gli studenti?
«Il rettorato non può presentarsi di fronte a un’assemblea con 800 persone. Pertanto, ha chiesto di incontrare una delegazione di sei persone. Con una condizione: che questo gremio fosse composto solo da studenti dell’Università di Losanna. Gli attivisti però non hanno accettato».
Non è una rottura del principio del dialogo, da lei tanto difeso?
«No, per niente. L’incontro ristretto è pensato per favorire una discussione tranquilla e costruttiva. Ciò è impensabile con 800 persone”.
Accanto agli studenti, «in nome della libertà di espressione e dell’integrità morale delle collaborazioni accademiche», a Losanna si sono schierati diversi professori. Un commento.
«I professori sono liberi di prendere decisioni individuali. La libertà accademica, però, non implica la possibilità di prendere in ostaggio un’intera istituzione. La libertà accademica riguarda la possibilità di condurre ricerca e insegnamento senza interferenze politiche. In questo senso, credo che la posizione dei professori non sia un’espressione di libertà accademica, ma di credo politico. In ultima istanza, possiamo porci la domanda se le Università debbano fare politica o meno. Noi, in questo momento, crediamo di no».


Perché?
«Perché se un’Università si schiera, di fatto, crea al suo interno una frattura e una divisione. Non voglio negare la sofferenza che suscita una guerra che coinvolge così tanti civili, ma non possiamo neppure negare che c’è una controparte che vive con altrettanta sofferenza e disagio questo momento. Come si sentirebbero gli studenti di origine ebrea se l’Università di Losanna si schierasse?»
Teme una politicizzazione delle Università e dell’ambiente accademico?
«Ognuno di noi può avere posizioni politiche, ma il compito dell’Università è quello di fungere da collante per la comunità e favorire il dialogo. Non intendo dire che l’Università debba essere isolata dal contesto sociale. Al contrario, ha un ruolo attivo e deve contribuire alla comprensione del mondo che ci circonda, coinvolgendo tutti senza discriminazioni. Non dovremmo trasformarla in un luogo di giochi politici, che si discosta dalla sua funzione primaria di ricerca e diffusione della conoscenza».
Qual è il limite da non oltrepassare da ambo le parti?
«Per gli studenti, è fondamentale evitare di essere strumentalizzati. Comprendo e condivido il loro coinvolgimento emotivo riguardo agli eventi a Gaza, il che dimostra un’attenzione e una sensibilità significative da parte dei giovani. Per quanto riguarda il rettorato, invece, è essenziale mantenere il dialogo fino a quando ciò è possibile. Tuttavia, è necessario cercare una soluzione pacifica senza imporre opzioni politiche a un’istituzione accademica».