Politica

Domenica elettorale per l'Italia: domina l'incognita astensionismo

Sono oltre 51,5 milioni i cittadini chiamati a decidere sull'abrogazione di alcune norme riguardanti l'orientamento e l'organizzazione della giustizia – Per le amministrative gli aventi diritto sono invece poco più di 8,8 milioni
Dario Campione
11.06.2022 10:30

Italia al voto, domani, per rinnovare un migliaio di amministrazioni locali e decidere su cinque quesiti referendari riguardanti la giustizia. Secondo i dati diffusi nelle ultime ore dal Viminale, i cittadini chiamati alle urne sono oltre 51,5 milioni, come sempre in maggioranza donne (26,4 milioni contro 25, 1 milioni di uomini). Numeri che, in questo caso, non sono una semplice voce da annotare, a futura memoria, nella casella delle statistiche elettorali. Quanto piuttosto un elemento dirimente: prima ancora di contare i sì e i no, infatti, domani sarà necessario guardare al quorum per capire se la macchina dei seggi si sarà messa in moto inutilmente: la precondizione affinché i referendum abrogativi siano validi, infatti, è che si rechi alle urne la metà più uno degli aventi diritto.

Nel 2016, il referendum sulle trivellazioni per l’estrazione di idrocarburi non riuscì a raggiungere nemmeno un terzo dei votanti. Fallendo miseramente. Mentre nel 2011 i referendum sull’acqua fecero segnare un’affluenza fu 54%.

Quest’anno, i promotori si sono fortemente lamentati per la scarsa attenzione dedicata dai media ai 5 quesiti sulla giustizia, fino a spingersi a parlare esplicitamente di «censura» (lo ha fatto, ad esempio, il leader della Lega, Matteo Salvini). Certo è che sino a due settimane prima del voto, quando cioè era ancora possibile rendere noto l’esito dei sondaggi, tutti gli istituti demoscopici concordavano sul fatto che la maggioranza degli italiani non avesse alcuna consapevolezza dei temi in votazione e non avesse, di conseguenza, intenzione di votare.

Oltretutto, tre dei cinque referendum riguardano materie in discussione attualmente in Parlamento, cosa che ha spinto numerosi commentatori a sottolineare l’incongruenza di una chiamata alle urne riguardante scelte che potrebbero essere modificate tra pochi giorni dalle Camere.

Lo spoglio

I seggi rimarranno aperti nella sola giornata di domani, dalle 7 alle 23; lo spoglio inizierà subito dopo la chiusura delle operazioni di voto. Si comincerà dai referendum, per poi passare, dalle 14 di lunedì, alle schede per le comunali. L’election day, come detto, contempla anche le amministrative in 971 comuni, 26 dei quali sono capoluoghi di provincia - e 4 capoluoghi di regione: Palermo, la città più grande al voto con i suoi 658 mila abitanti, Genova, L’Aquila e Catanzaro.

A eleggere sindaci e consigli comunali sono chiamati poco più di 8,8 milioni di cittadini. Troppo pochi, secondo gli esperti, per “sospingere” i referendum verso il raggiungimento del quorum.

Territori di frontiera

A ridosso del confine ticinese, nelle due province di frontiera, va al voto una ventina di comuni, il più importante dei quali è sicuramente Como. Nella città lariana, per la terza volta consecutiva, il sindaco uscente non si ricandiderà. Se nel 2012 Stefano Bruni aveva la strada sbarrata dalle norme sul doppio mandato, nel 2017 Mario Lucini aveva scelto (anche contro il parere della coalizione che lo sosteneva) di terminare il suo lavoro di amministratore dopo soli 5 anni, consapevole – forse - di non poter più raccogliere il consenso della maggioranza dei cittadini. Mario Landriscina, invece, è stato letteralmente “abbandonato” dalla sua maggioranza, che gli ha preferito Giordano Molteni (indicato da Fratelli d’Italia). Un finale triste e solitario, per parafrasare Osvaldo Soriano, del quale lo stesso Landriscina si è rammaricato, con grande signorilità ma senza rinunciare a critiche feroci verso il sistema dei partiti. Il cambio in corsa di candidato potrebbe costare al centrodestra la vittoria. Contesa al primo turno dall’esponente del centrosinistra, Barbara Minghetti e dal civico Alessandro Rapinese, il quale per la terza volta tenta di conquistare Palazzo Cernezzi. In Lombardia, vanno al voto altri due capoluoghi, Monza e Lodi. Ma anche Sesto San Giovanni, l’ex “Stalingrado” d’Italia, dove il centrosinistra culla il sogno di una rivincita. L’esito elettorale in Lombardia viene considerato, come sempre, molto significativo.

«La partita di Lodi ha rilevanza nazionale - ha detto ieri il segretario nazionale del PD, Enrico Letta, chiudendo la campagna elettorale del candidato sindaco Andrea Furegato - In questa tornata, Lodi conta molto più di Milano, e per una ragione molto semplice: questo è l'ultimo voto nazionale prima delle politiche del 2023. E non è un caso che l’altra volta qui perdemmo, e poi perdemmo le politiche. Vincere Lodi significa vincere le prossime politiche». Una equazione forse un po’ semplicistica, quella di Letta, ma chiara e diretta. Un messaggio forte agli elettori e una sfida al campo avverso.

Letture semplicistiche

Secondo Piero Ignazi, politologo e professore di Scienza politica all’Università di Bologna, «comunali e referendum sono due voti che devono essere tenuti distinti. Così come il discorso sulla partecipazione. L’astensione sui quesiti relativi alla giustizia potrebbe essere una scelta politica consapevole - dice Ignazi al CdT - un giudizio di merito che i cittadini possono dare anche non recandosi alle urne».

Più in generale, a detta di Ignazi questo passaggio elettorale non ha una «posta in gioco molto alta e non offrirà indicazioni politiche significative. Al di là dell’esito per ciascun partito, non votano città simbolo. Genova e Palermo sono sicuramente comuni importanti ma non decisivi. Palermo ha storia tutta sua non paragonabile ad altre, mentre a Genova la buona gestione del sindaco dopo la tragedia del viadotto autostradale ha reso quasi scontato il risultato».

Ignazi conclude invitando comunque a rifuggire letture semplicistiche. «Ad esempio, la storiella delle divisioni del centrodestra, che poi agli appuntamenti elettorali finisce sempre per unirsi. Più interessante, invece, capire se gli elettori del M5S appoggeranno, e in che misura, il campo progressista» su cui insiste soprattutto Enrico Letta.