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Donne in carcere, «Qui anche il cielo ha le sbarre»

Una giornata trascorsa con le detenute che scontano la pena alla Farera, dove il regime è più duro e le possibilità di iniziare un percorso di recupero sono limitate - «Quando si entra è uno shock ma sappiamo che dobbiamo riprendere in mano la nostra vita»
© CdT/Chiara Zocchetti
Martina Salvini
16.10.2021 06:00

Per le donne rinchiuse alla Farera anche il cielo ha le sbarre. Non solo quando lo cercano fuori dalla finestra della loro cella, ma anche, nelle due ore d’aria giornaliere a cui hanno diritto, quando provano a raggiungerlo con un respiro finalmente più profondo. Passeggiano su un terrazzino di pochi metri quadrati: intorno a loro, una gabbia.

Di là, alla Stampa, gli uomini possono passare i momenti liberi su un pratone verde. Ma, soprattutto, possono iniziare un apprendistato, lavorare. Nei mesi o negli anni di carcere, non c’è solo l’espiazione della pena, ma anche un percorso di recupero, di reinserimento nella società. Per le detenute donne, invece, tutto questo non è possibile.

Chiuse in cella

In Ticino non esiste più un carcere femminile. La sezione alla Stampa che ospitava le detenute è stata chiusa nel 2007: le donne incarcerate erano poche e gestirle costava troppo. Le prevenute (ossia le donne in detenzione preventiva) e le condannate a una pena breve sono collocate alla Farera. Una struttura nata per essere un carcere giudiziario, nel quale vigono regole dure. Gli uomini, quando il procuratore pubblico promuove l’accusa, passano alla Stampa – dove il regime carcerario è meno pesante – per l’espiazione anticipata della pena. Le donne, invece, in mancanza di una sezione a loro dedicata, sono costrette a rimanere alla Farera, dove la detenzione, per quanto alleggerita, rimane comunque molto faticosa: due ore d’aria, dieci minuti di chiamata per cinque giorni alla settimana, atelier di sartoria e cucina, un gruppo di ascolto e poco altro. Le detenute restano chiuse in cella per la maggior parte del tempo. Se la pena da scontare è più lunga, superiore a un anno, vengono trasferite fuori cantone, nel carcere di Hindelbank (BE) o nella struttura di La Tuilière di Lonay (VD).

I pianti e la perdita di peso

Alla Farera attualmente sono incarcerate tredici donne, ma solo nove sono in esecuzione di pena o in espiazione anticipata. Sedute attorno al tavolo, nella piccola stanza in cui seguono le lezioni, quattro di loro hanno appena iniziato il gruppo di parola. «Un momento di scambio e di condivisione. Alcune volte si discute, oppure si legge una poesia o si fa un disegno», ci spiega la loro docente, Alessandra Felicioni. Cristina, 36 anni, è biondina e minuta. «Ho perso dieci chili da quando sono qui», dice con un filo di voce. È alla Farera da sei mesi e mezzo con l’accusa di truffa. «I primi tempi piangevo. Dopo l’arresto, ho passato i primi due mesi con una ragazza romena, come me. Ero spaventata, e stare con lei mi ha aiutata». Cristina ricorda bene il primo giorno in cui ha potuto rivedere il cielo, mentre veniva accompagnata alla Stampa per fare gli esercizi in palestra. «Guardarmi attorno e vedere un prato senza sbarre è stato bello. È stato strano. Scontare la pena di là (alla Stampa, ndr) sarebbe stato diverso».

«Se solo potessi lavorare...»

Da quattro mesi condivide la cella con un’altra donna, dal temperamento deciso. «Siamo molto diverse – ammette – ma ci troviamo bene». Fuori, Cristina ha una bambina di quattro anni. «Farà il compleanno tra pochi giorni. E io non sarò lì con lei». È questo che le pesa di più, non esserci per la sua piccola. «Mi chiede spesso quando tornerò a casa. Al momento sta con mia zia, mentre il resto della mia famiglia è in Spagna». La sente cinque volte alla settimana, per dieci minuti, e la vede in videochiamata due volte al mese. «Troppo poco per dirle davvero tutto quello che vorrei. Ma, soprattutto, è difficile dirle che devo riattaccare, quando scade il tempo. È la cosa più preziosa che ho e mi dispiace averla delusa».

Accanto a lei, Sara è un fiume in piena. Gesticola e racconta i cinque mesi passati finora dietro le sbarre, in espiazione anticipata di pena. Ha ferito l’ex compagno, con cui aveva una «relazione malsana». «Quando si finisce qui, è uno shock. Ma in fondo mi stanno salvando e ora sono più che mai decisa a riprendere in mano la mia vita», dice. Sara si è data tre obiettivi: «Voglio riprendermi dal punto di vista psicofisico, voglio poter restare con i miei figli e reinserirmi nel mondo del lavoro». Passare le giornate qui dentro, senza avere nulla da fare, le pesa. «Se solo potessi lavorare, sarebbe diverso».

«Mi manca anche la crema»

Condivide la cella con Ijeoma, vent’anni appena. «Ha più o meno l’età di mio figlio. Avere qualcuno con cui passare il tempo è fondamentale e quella persona diventa la tua famiglia», dice mentre le stringe la mano e le traduce tutto in inglese. Ijeoma non parla italiano, «anche se un po’ lo sto imparando, grazie a Sara». È stata incarcerata insieme alla sorellina tredicenne, trattenuta per otto giorni alla Farera e ora tornata a casa. La sua famiglia sta in Germania, mentre lei si trova in Ticino da sei mesi, in attesa di essere trasferita nella struttura di Hindelbank. «Mia mamma è venuta a trovarmi una sola volta. Per arrivare qui impiega troppo tempo, ed è troppo costoso per un paio di ore di visita. Qui è dura, soprattutto i primi giorni di carcere. In cella, però, rivaluti il valore delle piccole cose, perché qui dentro non hai niente e finisci per sentire la mancanza persino della crema che eri solita usare».

«Una lotta quotidiana»

Giselle, 30 anni, è alla Farera da ventidue mesi. «Sto aspettando di poter accedere a una struttura specializzata», racconta. Dice di stare bene adesso, «anche se è una lotta quotidiana». Quattro mesi fa, ha tentato di togliersi la vita. «Ho vissuto momenti bui, ero al limite, ma ora ho imparato a volermi bene e mi sento una persona migliore». Prima del carcere? «Combattevo con me stessa», risponde. Oggi, invece, è piena di sogni e vorrebbe fare la make-up artist. Per esercitarsi, si è fatta stampare alcuni visi da poter truccare con i colori. Ci mostra con fierezza i disegni sulla scrivania della sua cella, insieme alle giacche e ai pantaloni che ha realizzato al corso di sartoria. Sul muro dietro il letto, invece, scorgiamo alcune lettere del papà. Anche lei scrive molto. «Mi piace e ne sento il bisogno. Tengo un diario nel quale annoto i miei pensieri, in cui parlo di me e del mio percorso interiore». Giselle è in cella da sola, per scelta. «La nostra stampella dobbiamo essere noi stessi, non bisogna affidarsi agli altri. È dura, certo. Ma mi sono imposta di farcela da sola, e ce la sto facendo». È determinata, Giselle. Eppure, ammette di essersi abituata a questa condizione, e quando passa dal prato verde non alza mai lo sguardo: «Non voglio vedere il cielo, perché la mia vita è questa adesso, qui dentro. Dopo un po’ ci si abitua, e si finisce anche per farsi andare bene le giornate, così come sono».