Stati Uniti

Dopo lo sgombero restano ferite e domande

I raid della polizia nei campus americani hanno messo la parola fine a un capitolo tormentato – Ma il dibattito attorno alla questione mediorientale rimane complesso, addirittura tossico – Con possibili strascichi nella corsa alla Casa Bianca
© EPA/JILL CONNELLY
Davide Mamone
03.05.2024 21:30

All’indomani dei raid della polizia, nei campus degli Stati Uniti rimane un profondo senso di sconforto per i sit-in pro-Palestina che furono, ora smantellati. Le immagini delle operazioni di sgombero a Columbia University e UCLA hanno messo la parola fine, per ora, a un capitolo tormentato. Allo stesso tempo, però, hanno lasciato una ferita non semplice da rimarginare nel Paese, riscopertosi incapace di confrontarsi con rispetto su questioni spinose e forse, soprattutto, all’interno della base del partito democratico, mai così diviso a una manciata di mesi dalle elezioni.

Tensioni pacifiche

Una vastissima maggioranza delle manifestazioni degli ultimi dieci giorni è stata pacifica. Lo hanno riportato i giornalisti locali e quelli studenteschi delle università in protesta (spesso gli unici ad avere accesso ai campus quando sono stati posti in lockdown).

Lo confermano i dati: secondo un report pubblicato giovedì da Armed Conflict Location & Event Data Project, un’organizzazione non-profit che fu già fonte preziosa durante le marce Black Lives Matter nel 2020, il 99% delle proteste non ha registrato alcun episodio di violenza. Nonostante ciò, su televisioni e social media le attenzioni sembrano essere per lo più focalizzate sui più di 2.000 arresti di studenti, professori e manifestanti, una vasta maggioranza dei quali avvenuti tra martedì e giovedì.

In quelle ore di tensione, un gruppo di manifestanti pro-Palestina ha occupato l’edificio di Hamilton Hall a Columbia, mentre scontri tra gruppi pro-Israele e quelli a sostegno della causa palestinese hanno costretto la sindaca di Los Angeles a richiedere l’intervento delle forze dell’ordine a UCLA. Il risultato è stato simile: fermi, spintoni e, a New York, un colpo di pistola fatto partire per errore da un agente di polizia (nessuna vittima, fortunatamente). Secondo quanto riportato da Columbia, 13 dei 44 arresti all’interno di Hamilton Hall - famoso per essere stato occupato durante le proteste studentesche contro la guerra in Vietnam del 1968 - sono di persone che nulla avevano a che fare né con l’università né con le tendopoli che hanno scandito la vita nel campus nelle ultime settimane.

Un dato provvisorio ma significativo, che regala un affresco di come nel Paese si stia gestendo il dibattito Israele-Palestina: le persone pacifiche e più moderate lasciate ai margini delle attenzioni seppur in maggioranza, o poste in stato di fermo tanto quanto le frange più estreme, a loro volta in netta minoranza ma capaci di intrufolarsi tra le proteste per attirarne i riflettori.

Dibattito tossico

Un articolo pubblicato da Vox giovedì a firma di Zack Beauchamp, un corrispondente che scrive di ideologie e democrazia, dal titolo «Perché il dibattito Israele-Palestina in America è infranto e come aggiustarlo», lo spiega perfettamente. Per una grande maggioranza di persone il tema del conflitto Israele-Hamas è diventato tossico, in famiglia, tra gli amici e tra conoscenti. Esprimersi a favore dell’esistenza dello Stato di Israele e al tempo stesso sostenitori della creazione di uno Stato palestinese può portare una persona a sentirsi isolata, bollata come di parte o, in alcuni casi, ad auto-silenziarsi. Una maggioranza di americani (il 53%, vicino ai massimi del 2003) crede ancora che la soluzione a due Stati sia l’unico terreno percorribile, secondo Gallup. Una recente rilevazione Pew Research mostra che metà dei giovani ebrei d’America preferisce ormai evitare di parlare del conflitto, divisa tra l’orrore per l’attacco di Hamas del 7 ottobre che ha portato alla morte di 1.200 persone israeliane, il disgusto per la risposta del premier israeliano Benjamin Netanyahu che ha provocato l’uccisione di almeno 35.000 palestinesi a Gaza e il timore di essere incompresi in America.

«In un tale contesto, le persone più ragionevoli da entrambe le parti - quelle che riconoscono che né gli israeliani né i palestinesi andranno da nessuna parte e che la pace può essere trovata soltanto attraverso un compromesso negoziato - vengono messe da parte», scrive Beauchamp su Vox. Che prosegue. «Il radicalismo che si vede nelle notizie o sui social media non riflette né la maggioranza delle opinioni degli americani né quelle dei gruppi coinvolti nella guerra».

Molti atenei, ad esempio, hanno chiuso accordi ragionevoli con i propri studenti in queste ore, ma questa notizia ha avuto molta meno diffusione rispetto alle vetrate rotte di Hamilton Hall. A Northwestern University in Illinois, Brown University a Rhode Island e University of Minnesota a Minneapolis, i manifestanti hanno infatti smobilitato gli accampamenti autonomamente in cambio della promessa dell’avvio di un percorso che possa portare, eventualmente, alla cessione delle partecipazioni degli atenei in fondi e imprese che trarrebbero profitto dall’invasione della Striscia.

E il 1968?

Mentre il Paese si lecca le ferite per gli sgomberi nei campus, l’ombra del 1968 continua a perseguitare il partito democratico e a scatenare il dibattito nei media. Nell’estate di quell’anno, infatti, i Dem scelsero la città di Chicago per la loro convention estiva che incoronò Hubert Humphrey candidato presidente e le cose andarono in modo politicamente disastroso: la polizia manganellò con violenza i presìdi del movimento dei giovani hippie contrari alla guerra in Vietnam e l’immagine di Humphrey sorridente al fianco dei manifestanti (teoricamente parte del suo elettorato di allora) insanguinati a terra a poche centinaia di metri di distanza di quella notte regalò la Casa Bianca al repubblicano Richard Nixon. In meno di quattro mesi, i Dem potrebbero trovarsi di fronte a un simile bivio: perché la convention che incoronerà Biden si terrà proprio a Chicago e i movimenti riuniti in queste settimane nei campus si stanno già organizzando per esserci.

Le differenze tra le due annate sono svariate e le ragioni dei due movimenti di protesta molto diverse per natura, tanto è vero che il New Yorker, ieri, ha parlato del 2024 come di una strana combinazione tra il 1968 e il 2020, dopo che Donald Trump si è rifiutato (di nuovo) di accettare un’eventuale sconfitta. Ma se Biden - che ha condannato gli episodi di antisemitismo e islamofobia così come l’infiltrazione di elementi esterni che ha portato all’occupazione di forza di Hamilton Hall a Columbia - dovesse mancare all’appuntamento con il compromesso con le anime del suo partito in agosto, un nuovo autogol in mondovisione non sarebbe da escludere.