«Dopo vent’anni ancora ci manca un corpo su cui piangere»

Basta menzionare quella giornata con un filo di voce, per sentire le lacrime di Emmelina De Feo dall’altro capo del telefono. Come se l’11 settembre 2001 fosse caduto ieri. Lei, newyorkese italo-americana, ha perso un fratello, David, che quella mattina era andato in ufficio prima del previsto. Dopo l’attacco alla prima torre aveva tranquillizzato la mamma, il papà ed Emmelina al telefono: l’aereo aveva colpito l’edificio gemello, non il suo. «Poco dopo aver parlato con lui, però, abbiamo visto l’altro volo schiantarsi in diretta televisiva sulla seconda torre», ricorda lei con la voce rotta. «Dopo vent’anni non abbiamo ancora un corpo su cui piangere, e credimi: nessuno ci ha detto tutta la verità su quel giorno atroce». La guerra in Afghanistan, iniziata aggressivamente dal repubblicano Bush, mai conclusa dal democratico Obama, mal protratta dal populista Trump e così maldestramente terminata dall’amministrazione Biden, è finita, adesso. Le ferite di quel giorno, però, sono rimaste. «David sarebbe contrariato oggi nel vedere cosa è stato fatto per rivendicare la sua uccisione», riflette Emmelina. «Avrebbe detto no alla guerra, per catturare i mandanti silenziosi degli attentati, e sì all’intelligence», lui che nell’intelligence ci ha lavorato per anni, per l’esercito USA.


L’educazione
Di famiglie deluse, arrabbiate, a vent’anni di distanza dall’attentato che ha cambiato l’Occidente ce ne sono quasi tremila. Una per ognuna delle vittime. Deluse perché certi documenti ufficiali sono stati de-secretati solo da poco, dal presidente Biden. Arrabbiate perché, nonostante gli eventi di commemorazione, hanno sempre di più la sensazione che il mondo, dell’11 settembre, ormai se ne ricordi solamente il giorno prima. «Sarebbe auspicabile che più scuole insegnassero e costruissero percorsi educativi sui retroscena degli attacchi», spiega, interpellata dal Corriere del Ticino, Angus Kress, professoressa di studi americani presso la Rutgers University, l’università statale del New Jersey. «Senza questa educazione, i giovani americani nati dopo l’11 settembre non avranno mai piena comprensione di che cosa quel giorno abbia voluto dire per tutti noi».
Il nome inciso sulle vasche
Emmelina è d’accordo. Per la sua famiglia e per centinaia di altre come la sua, il memoriale di Manhattan, là dove ieri sorgevano le torri e dove oggi le vasche ai piedi della Freedom Tower ricordano i caduti degli attentati, rappresenta l’unico cimitero che hanno a loro disposizione. Quel nome, David De Feo, inciso sul bordo delle vasche, l’unica tomba su cui piangere. «Provo rabbia quando vedo le persone farsi i selfie sorridenti davanti ai nomi delle persone morte», dice Emmelina. «È la dimostrazione del nostro fallimento nel preservare la storia di quel giorno e la memoria di persone come mio fratello».
Il parallelismo
New York piange ancora, però. Come Emmelina e la sua famiglia. Come la capitale, Washington, attaccata proprio nell’edificio, il Pentagono, cuore dell’intelligence che l’11 settembre fallì. E chi quel giorno c’era, in America, è come se facesse parte di una categoria diversa, unica nel suo genere. «In termini di morti effettive, l’attuale pandemia di coronavirus è di gran lunga peggiore agli attacchi», prosegue ancora la professoressa Kress, facendo un parallelismo con la contemporanea crisi sanitaria che ha messo in ginocchio i newyorkesi, New York e il mondo. «Tuttavia, gli eventi di quel giorno furono più immediati e scioccanti. Aerei di linea giganteschi andatisi a schiantare contro i nostri edifici. Quei nostri edifici, all’apparenza invincibili, crollare drammaticamente. L’11 settembre ha un impatto emotivo senza paragoni».
La polarizzazione
In un’America mai così divisa, dove anche vaccinarsi contro un virus mortale sembra sia diventato fattore determinante d’appartenenza, la memoria degli attacchi rimane uno dei pochi tratti unificatori del Paese. Dopo l’attentato, il presidente George Bush, al tempo, toccò l’apice del proprio indice di gradimento all’88,1%, una percentuale evidentemente senza eguali nella storia americana dal secondo Dopoguerra in poi. Impensabile negli Stati Uniti polarizzati di oggi. Nell’America di domani, invece, la speranza di Emmelina è che la commemorazione dell’11 settembre possa essere da esempio. «Spero che mio fratello e tutti coloro che sono stati ammazzati in un modo così orribile possano vivere nel tempo», dice. «La gente si sta scordando, davvero, dell’atrocità di quel giorno. Sta a noi non perdere questa memoria». Davide Mamone