Fine di una storia

È ora di slacciare le cinture: stasera l’ultimo volo di Alitalia

Dopo 75 anni si chiude per sempre, tra debiti miliardari e giganteschi errori politico-gestionali, l’attività della compagnia di bandiera italiana - Da domani sarà in servizio ITA - Gli esperti: «I problemi restano irrisolti»
Stasera, attorno alle 23, i passeggeri del volo Cagliari-Roma saranno gli ultimi a scendere la scaletta di un areo dell’Alitalia. ©Ap / Luca Bruno
Dario Campione
14.10.2021 06:00

Per decenni, i grandi e piccoli aerei con la livrea tricolore sulla coda sono stati fieri (e felici) di stare lassù. Tra le nuvole. Nel blu dipinto di blu. Simboli riconosciuti di un Paese. Marchio di fabbrica della bellezza. Tutto finito. Tutto andato in malora. Ora si scende. Si spengono i motori. Per sempre.

Stasera atterra a Fiumicino l’ultimo volo di Alitalia: è l’Az 1586, in arrivo attorno alle 23 da Cagliari. Domani è un altro giorno. Il giorno di ITA, Italia Trasporto Aereo. Un giorno triste per la storia dell’aviazione civile italiana.

La possibilità di resuscitare, per l’ennesima volta, la compagnia di bandiera è definitivamente svanita. Sotto i colpi di una crisi che dura ormai da 30 anni. Un lasso di tempo troppo lungo, durante il quale i governi romani hanno buttato via 13, forse 14 miliardi di euro. Una voragine. L’emblema cristallino del pozzo senza fondo, dentro cui sono precipitati prestiti, ricapitalizzazioni, contributi sociali e previdenziali, aiuti di ogni tipo.

Una vicenda molto italiana
La lunga vicenda di Alitalia si è intrecciata, a doppio filo, con quella del Paese. Ne è stata simbolo. E insieme paradigma. Dall’età dell’oro al declino inesorabile. Causato certo dalle crisi economiche e pandemiche, ma anche (e soprattutto) da strategie industriali sbagliate e da scelte politiche e sindacali a dir poco folli. Dettate dal desiderio di non scontentare una massa di voti che, in certi frangenti, era diventata davvero cospicua.

Fondata il 16 settembre 1946 Alitalia fece decollare il primo aereo il 5 maggio 1947 sulla rotta Torino-Roma-Catania. Due mesi dopo offriva ai suoi clienti il primo volo internazionale, da Roma a Oslo. E a marzo 1948 inaugurava le linee intercontinentali: 36 ore di viaggio per raggiungere, da Milano, la capitale argentina, Buenos Aires, con scali intermedi a Roma, Dakar, Natal, Rio de Janeiro e San Paolo.

Negli anni del secondo dopoguerra l’espansione sembrò inarrestabile: nel 1959, alla vigilia delle Olimpiadi romane, era già in grado di trasportare 3 milioni di passeggeri all’anno. Nel 1969 era l’unica compagnia aerea in Europa a muoversi con aerei a reazione. E all’inizio degli anni ’80 era diventata la terza in Europa per numero di voli, dietro solo a Lufthansa e British Airways. Un orgoglio per la Penisola. Una compagnia efficiente, con uno dei migliori servizi a bordo. Soprattutto, un’azienda elegante: il trionfo dell’italian style, con le divise disegnate prima da Delia Biagiotti e poi da Giorgio Armani.

Poi, fulmineo e inarrestabile, il declino. Favorito da gigantismo e manie di grandezza, incapacità di affrontare i nuovi scenari del trasporto aereo e l’avvento delle compagnie low cost, crisi internazionali.

Il tragico errore del 2008
Da vanto della nazione a zavorra di Stato, la parabola di Alitalia non è riuscita a invertire la sua rotta. Secondo Ugo Arrigo, docente di Economia pubblica all’Università di Milano Bicocca e consulente economico del ministero dei Trasporti sino allo scorso mese di marzo, l’Italia ha pagato a caro prezzo «l’assenza di una visione strategica del sistema dei trasporti». Un’assenza culminata, nel 2008, nella «tragica scelta nazionalistica di Silvio Berlusconi» che si oppose alla trattativa con Air France-KLM preferendo l’operazione “Fenice” dei cosiddetti capitani coraggiosi. Uno sbaglio irrimediabile, la cui sintesi più efficace fu rappresentata dal «rinnovo clamoroso delle concessioni autostradali di Atlantia, un pedaggio pagato in anticipo dal leader di Forza Italia per convincere i Benetton a entrare nella cordata Alitalia».

La nascita di ITA, profetizza Arrigo, non servirà a risolvere il problema. «La nuova compagnia è troppo piccola e non ha massa critica sufficiente per competere. Personalmente, avevo avanzato due proposte rimaste, però, inascoltate: chiudere tutto e affidarci al mercato, vendendo al migliore offerente; oppure spendere i 3 miliardi stanziati dal Governo Conte II per entrare nella compagine azionaria di uno dei grandi vettori europei, Air France o Lufthansa». Il modello ipotizzato da Arrigo era, in sostanza, simile a quello adottato da Swiss. «Tra due o tre anni, quando ITA non avrà più ossigeno, questa seconda ipotesi potrà concretizzarsi. Ma a quel punto, chi comprerà lo farà da posizioni di forza».

La scomparsa di Alitalia, dice Gianni Dragoni, capo della redazione romana del Sole 24 Ore e autore, per Chiarelettere, del libro “Capitani coraggiosi - I venti cavalieri che hanno privatizzato l’Alitalia e affondato il Paese”, «è l’emblema dell’incapacità della politica di immaginare, programmare e guidare sistemi complessi. Tutte le più importanti nazioni europee hanno mantenuto una grande compagnia aerea, seppure privata. Non l’Italia, che ci ha rinunciato da molto tempo. Basti pensare che la stessa Swiss ha oggi una flotta più grande di Alitalia, il doppio di quella futura di ITA. La verità è che da noi, purtroppo, da un fallimento sono discesi soltanto altri fallimenti e nessun rilancio».

La compagnia di bandiera è sempre stata un’azienda «troppo vicina alla politica, che ne ha condizionato la gestione - chiosa ancora Dragoni - negli ultimi venti anni sono poi completamente mancate una visione d’insieme e la capacità di cogliere i cambiamenti: dalla aumentata concorrenza alla crescita del peso dei vettori low cost. Non aver venduto nel 2008 ad Air France-KLM è stato l’errore dopo il quale nulla era più possibile fare».

In questo articolo: