E se un giorno la Svizzera diventasse la casa di Roberto Saviano? «Chi lo sa»

«Come stai?». Ho deciso di iniziare l’intervista a Roberto Saviano con una domanda molto intima e personale. Perché una delle ultime immagini pubbliche dello scrittore lo ritrae in lacrime, in tribunale, al termine di un’odissea durata sedici anni e mezzo. La Corte d’appello di Roma, a metà luglio, ha confermato le condanne per Francesco Bidognetti, boss del clan dei Casalesi, e per l’avvocato Michele Santonastaso. Entrambi ritenuti responsabili di aver intimidito Roberto Saviano e Rosaria Capacchione, allora cronista di punta su camorra e criminalità organizzata. Un’intimidazione aggravata dal metodo mafioso.
Ma torniamo a oggi. «Male», risponde lo scrittore napoletano al mio «come stai?», con un sorriso amaro. E aggiunge: «Questa è una domanda che spesso innesca una risposta insincera, perché non c’è mai tempo per godersi la gente. Però io vado dritto al punto. Sto male, ma è tutta mia responsabilità. Non riesco a uscire da questa mia vita, dal deserto in cui sono finito. È un disastro. E maturare significa ammettere anche questo, mentre prima vedi solo le responsabilità esterne». Il deserto di cui parla Saviano è legato proprio a quelle lacrime. Era il 13 marzo 2008, processo Spartacus, il maxi procedimento contro il clan dei Casalesi. Davanti a un pubblico di magistrati e giornalisti, l’avvocato Santonastaso – su incarico diretto di Bidognetti – lesse una lettera di ricusazione dei giudici. Nel mirino i giornalisti. «I responsabili morali delle nostre condanne sono loro», Saviano e Capacchione. Un attacco diretto, pubblico, plateale. Un atto di accusa mafiosa lanciato nel cuore di un’aula di giustizia.
«Mi hanno rubato la vita»
Da allora Roberto Saviano vive sotto scorta. Anche se parlare di vita, per lo scrittore e giornalista, è difficile. «È un incubo di cui sono protagonista», mi confida, «e che però continuo ad alimentare, perché basterebbe sottrarsi, sparire. Una cosa che io rinvio perché penso che sparendo brucerei tutta la lotta che ho fatto. Una sensazione sbagliata, lo so, ma è quello che provo». La giustizia ha impiegato sedici anni e mezzo. Saviano, allora non ancora trentenne, oggi di anni ne ha 46 e dietro di sé ha lasciato molto. «No, non ne è valsa la pena», mi risponde. «Forse sul piano lavorativo, perché i libri che ho scritto hanno permesso a molte persone di connettersi con le storie che ho raccontato. Ma il dolore pagato per tutto questo, assolutamente non ne valeva la pena. In nessun modo. Io provo la sensazione che si ha prima di un incidente: dici ‘‘stavo frenando, volevo cambiare strada, com’è potuto succedere?’’. E invece sono andato a sbattere, mi sono spezzato, e non me ne sono reso conto ed è come se il mio incidente fosse durato anni». Lo scrittore napoletano non è insensibile all’affetto e alle tante attestazioni di stima. «Ne sono grato e lo capisco. Però la situazione è ormai talmente drammatica che diventa difficilissimo pensare che questa battaglia sia stata una battaglia vinta. Del tema non parla più nessuno. Il problema hanno smesso di essere i capitali sporchi: adesso il problema sono i migranti».


Il tema
La mafia. Roberto Saviano ha sempre dichiarato di voler accendere la luce sulle cose, mostrare la verità. «Ma adesso le mafie sono viste come un luogo d’ordine», dice. «Persone che hanno un codice, affascinanti, vincenti. In parte lo sono. Io ho sempre descritto i boss criminali come la quinta essenza del capitalismo. Ne interpretano l’anima più feroce, più dinamica. Loro per ottenere potere sono disposti a fare una cosa che molti imprenditori non riescono neanche a immaginare: rischiare la vita, morire. Stare in una cella al 41-bis (il carcere duro) per trent’anni, sapendo che lo Stato è così fragile che basterebbe qualche confessione per uscire di lì. Ma non confessano per mantenere il potere e il denaro». Denaro che viene reinvestito all’interno delle organizzazioni criminali. L’Italia ha quelle più antiche del mondo. «La ‘ndrangheta potentissima, articolata, veloce. La camorra pulviscolare, strutturata intorno all’impresa, al cemento, alla droga. Cosa Nostra, ora in ginocchio, senza ossigeno. Dopo Riina di fatto l’organizzazione si è sgretolata, si è indebolita, ma non è mai scomparsa. Anzi tenta continui rilanci».
E proprio di Cosa Nostra ha parlato Roberto Saviano dal palco del Palazzo dei Congressi. Allacciandosi alle parole di Giuseppe Salvatore Riina, figlio del boss, intervistato da Lo Sperone Podcast. Parole che hanno suscitato polemiche per la minimizzazione e la reinterpretazione dei fatti storici. Ma che per lo scrittore rappresentano «una miniera di informazioni». Perché «Giuseppe Salvatore Riina, che non è in grado di fare il mafioso e anzi è sempre stato considerato un po’ ‘‘un fesso’’, fa l’ufficio stampa di Cosa Nostra». Utilizza elementi conosciuti (l’omicidio di Giovanni Falcone «ucciso dal sistema» o del piccolo Giuseppe Di Matteo «non ordinato da mio padre») stravolgendo il racconto. «Lui sta parlando ai ragazzini. Quattordicenni, quindicenni, sedicenni, i quali considerano necessario avere soldi e armi per ‘‘avere i coglioni’’. Grana, soldi e paura», spiega Saviano. «Magari non diventeranno mafiosi, ma il modello è quello. Cosa Nostra lo sa, e l’erede di Riina opera da Press Office. Usa nel podcast le grandi storie che i giovani sentono a scuola dalla professoressa, e li porta a pensare che ‘‘è una cazzata’’. Un’intervista da mafioso, perché parla a chi non conosce le cose. Dice che essere un uomo tutto d’un pezzo significa avere rispetto per la parola data, onore e soprattutto fedeltà, cioè non tradire. Io tutte queste cose le ho sempre dovute rubare. Un’intervista del genere è oggi un documento antropologico fantastico e dimostra che la mafia è tornata a parlare ai ragazzi».
La mafia in Svizzera
Le organizzazioni mafiose hanno un legame anche con la Svizzera. La direttrice dell’Ufficio federale di polizia (fedpol), Eva Wildi-Cortés, ha dichiarato che il contrasto alla criminalità organizzata – che «si è insediata nel nostro Paese» – rimane prioritario. Sotto la lente, in particolare, c’è il riciclaggio di denaro. «Tutte le mafie italiane, negli anni, hanno sempre investito qui», commenta a tal proposito Saviano. «La fortuna svizzera è stata che non hanno voluto installarsi militarmente. Qui il problema è finanziario. La Svizzera non riuscirà e non potrà mai aprire il ventre delle sue banche per mostrarne il contenuto. Ma va detto che, negli ultimi anni, le politiche finanziarie delle banche hanno portato a una certa distanza dalle organizzazioni criminali. Prima il denaro dell’evasione finiva tutto in Svizzera. Ma dopo la scoperta del denaro del Cartello di Sinaloa in una banca svizzera e il patriot act americano, le banche hanno potuto applicare più prudenza e oggi la capitale mondiale del riciclaggio è diventata Londra. Ma le mafie hanno trovato il modo di investire nel vostro Paese».


Innocente, ma per nulla libero
Da quando Roberto Saviano ha iniziato la sua carriera di scrittore, il mondo è cambiato. Oggi ci sono i social network e le informazioni sono reperibili ovunque. «Conosci tutto l’orrore del mondo in un clic e la sensazione che ti lascia è solo impotenza. Non basta l’impegno di un’intera giornata per far fronte a tutto. C’è un detto catalano che recita: ‘‘Dopo un’inondazione manca l’acqua (potabile)’’. Siamo sommersi dalle informazioni, spesso è difficile pure riconoscere quelle false. Ieri avrei detto che odio gli indifferenti. Oggi dico che, probabilmente, non c’è altra soluzione per sopravvivere».
Dice che non ne è valsa la pena, eppure ammette: «Ho la sensazione che togliendomi di mezzo gliela darei vinta». In fondo, è stato «il senso di vita» a spingerlo a raccontare storie. «Più volte mi dico ‘come è possibile continuare?’. C’è la volontà di condivisione. Ho creduto di potere sentirmi libero con la scrittura, affidando agli altri le mie parole. Ma il mio sogno è staccare». Sparire. E allora, in conclusione, gli domando: la Svizzera non potrebbe diventare, un giorno, la tua casa? «Chi lo sa».