«Ecco come ognuno di noi può trasformarsi in un demonio»

Non occorre essere degli psicopatici per compiere atti socialmente o moralmente inaccettabili. È la tesi del saggio Psicologia dell’animo oscuro. Morale, devianza e psicopatologia, ed. Licosia. Abbiamo intervistato l’autrice, Cristina Brasi, nella foto sotto. (Leggi il commento su questo testo)

Da dove vengono le nostre decisioni morali: dall’inconscio, dal ragionamento o dall’emozione?
«È un mix. La prima risposta che arriva al cervello di fronte a qualsiasi tipo di stimolazione sensoriale è di ordine emotivo. In base a quest’emozione cerchiamo di capire se ciò che sentiamo è congruente col nostro assetto cognitivo. Semplificando: il nostro cervello per essere funzionale tende a integrare tutte le parti. Cerca cioè una congruenza tra l’aspetto emotivo e quello cognitivo e sensoriale».


Da dove viene la parte cognitiva?
«Dalla nostra storia. Dalla memoria implicita e autobiografica. Da ciò che ci hanno insegnato da piccoli. Ad esempio, se un bambino vede il papà sempre in panciolle senza toccare una stoviglia, poi gli si potrà dire in tutti i modi che dovrebbe collaborare in casa, ma in automatico si attiverà quel pattern, quello schema. Inoltre, noi abitiamo in un contesto sociale e ogni contesto sociale ha una sua morale».

Per esempio?
«Per esempio, a Scampia (il celebre quartiere di Napoli noto per la dominanza dei boss camorristi, ndr) i bambini imparano ad armare una pistola così come qui imparano a tirare due calci al pallone. Il concetto di morale richiede un’integrazione di tutte le componenti evocate».
Come dire che, a seconda dei contesti, un individuo può essere percepito come un eroe o come un criminale?
«Esatto. Pensiamo al dittatore: se è riconosciuto come leader positivo viene riconosciuto come un eroe. Così come può esserlo un ribelle che va a liberare il popolo dal dittatore».
Lei mette in evidenza anche i meccanismi neurali del giudizio morale. La propensione al crimine dipende dal nostro cervello?


«C’è il rischio che si pensi che con un’alterazione di qualche allele uno diventi un criminale. In realtà non possiamo prescindere dal libero arbitrio. Abbiamo delle predisposizioni, ma non vuol dire che si realizzino per forza. Lo spiego nella mia teoria dell’antisocialità: possiamo avere degli alleli o un contesto che ci predispongono al crimine. Ma la predisposizione non è mai una condanna: la mente è plastica».
E la genetica? A un certo punto lei parla di un gene denominato MAOA che avrebbe un ruolo importante nel comportamento aggressivo...
«È lo stesso discorso di prima. È importante capire che c’è una componente genetica ed epigenetica. Un feto all’interno dell’utero riceve le prime stimolazioni e impara già qualcosa riguardo all’ambiente in cui verrà a trovarsi. Se consideriamo la questione da questo punto di vista e non come uno stigma possiamo anche capire come intervenire».
Per esempio, su un bambino che è venuto al mondo in un contesto violento?
«Sì. Teniamo conto che un bambino ha un’elasticità cerebrale fantastica e noi potremmo fare degli interventi mirati per aiutarlo».
Lei scrive: «Che siano ‘buone’ o che siano ‘cattive’, le persone devono comunque vivere in pace con loro stesse». È possibile, quindi, commettere atti efferati restando in pace con sé stessi?
«Certo. Un antisociale lo fa. Qui ha un ruolo essenziale la congruenza a livello cognitivo, la ricerca di un equilibro. Il disimpegno morale serve per mantenere l’equilibrio anche lì dove non ci dovrebbe essere. Se pensiamo a un antisociale narcisista, ovviamente di sensi di colpa non ne ha. È incentrato su di sé e qualsiasi cosa faccia ne attribuisce la responsabilità alla vittima».


Nel capitolo dedicato alla personalità parla ampiamente di Cesare Lombroso, passato alla storia perché secondo lui l’origine del comportamento criminale era insita nelle caratteristiche anatomiche del criminale. Cosa c’è di vero nelle sue teorie?
«Dal punto di vista anatomico non possiamo trovare il tipo criminale, come teorizzava Lombroso. Ma mi piace richiamare le sensazioni che ha avuto Lombroso e che sono quelle che io ho avuto rispetto all’analisi comportamentale».
Cioè?
«Cioè: noi percepiamo delle cose. Come quando entriamo in un locale e diciamo ‘che brutta aria che tira qua dentro’. Non sappiamo cosa è successo, ma nel momento in cui proviamo determinate emozioni il nostro corpo reagisce producendo determinati ormoni. Non abbiamo la consapevolezza di respirarli, non ne riconosciamo l’odore, al di là di quello cattivo che è dato dal sudore dello stress. Il nostro cervello sente l’odore di questo ormone, l’organo di senso si attiva e l’amigdala dice: stato di pericolo. In un certo senso, quindi, Lombroso è un antesignano dell’analisi comportamentale». Sotto: tipi lombrosiani.

Che differenza c’è tra temperamento e carattere?
«Il temperamento è una predisposizione innata. Noi nasciamo con un determinato temperamento. Quello che possiamo chiamare comunemente la nostra indole. C’è il tipo malinconico, quello agitato eccetera. Il carattere invece lo strutturiamo nel corso del tempo con lo sviluppo della nostra identità. Il concetto stesso di identità cresce nel tempo, cambia. La nostra identità non è mai uguale a se stessa perché le nostre esperienze cambiano. Ci sono delle alterazioni che possono condurci a gestire meglio quei tratti comportamentali che potrebbero creare dei disagi in alcune situazioni».


Parliamo del suo lavoro: lei, identificando quelli che chiama i tratti della personalità, riesce a ipotizzare il comportamento di un individuo in una situazione di difficoltà?
«Sì. Anche senza conoscerla direttamente».
Per esempio?
«Per esempio, e faccio riferimento a casi di studio, da una donna vittima di un narcisista maligno io riesco a strutturare il profilo della persona che la sta manipolando affettivamente. A quel punto riesco a prevedere situazioni precise. Mi è capitato una volta di dire a una paziente: tra due settimane ti scriverà a quell’ora e tra altre due accadrà questo. Perché si riesce ad identificare dei comportamenti che si metteranno in atto. Così come è anche importante rilevare che se trovi un cambiamento rispetto a quello che hai ipotizzato vuol dire che sta cambiando modus operandi. E che il soggetto in questione sta vivendo un disagio, una difficoltà, non riesce più a gestire quello che prima aveva sotto controllo».
E quindi?
«Quindi quello è un momento di fragilità. Ipotizziamo questo nel corso di un’indagine e possiamo produrre noi degli stressor per far cadere l’individuo in un errore. Dal momento che non ha più il controllo è più vulnerabile».

Leggendo il suo libro si intuisce che il rapporto tra neonato e madre risulti determinante per capire i comportamenti futuri, criminali o meno, dell’individuo. Come mai?
«L’attaccamento è la base di tutto. Il processo di attaccamento, se è sicuro, dà un bambino e un futuro adulto con una fiducia di base. Nel momento in cui ci sono delle dinamiche particolari – come un attaccamento di tipo evitante, o disorganizzato – si arriva a disturbi della personalità particolari. Ma ricordo sempre che questo non è uno stigma. Io credo sempre nella possibilità di un intervento precoce e credo molto nella prevenzione. Se si interviene subito si possono evitare tante cose, compreso il fatto di interrompere la catena transgenerazionale. Se ho avuto un tipo di attaccamento sviluppo un determinato modello comportamentale e quando sarò genitore probabilmente metterò in atto quello stesso modello».
Come quando si dice che chi è abusato da bambino poi rischia di essere un abusatore adulto?
«Esatto».
Tra i disturbi della personalità che lei descrive c’è quello antisociale di personalità: come nasce uno psicopatico?
«Nel mio libro faccio la cosiddetta autopsia psicologica di un serial killer. Di solito si fa l’autopsia psicologica della vittima. Naturalmente non intendo descrivere John Wayne Gacy come una vittima. Ma ho voluto spiegare come vivere condizioni abusanti, determinati traumi e determinate situazioni di vita possa far sì che la predisposizione di cui si parlava prima si attivi». Sotto: Anders Breivik, a destra, nel 2012 ha compiuto attentati ad Oslo e sull’isola di Utoya, con 69 morti. © EPA

Nel caso dello psicopatico il tratto più rilevante è la mancanza di empatia...
«Sì. Ma il dibattito è aperto. Si sta ancora studiando se lo psicopatico abbia o non abbia un concetto di morale. Ma effettivamente lo psicopatico non riconosce il dolore dell’altra persona. Se poi lo psicopatico è sadico, trova piacere nella sofferenza dell’altra persona. Può essere un modo di riesorcizzare il proprio trauma. Faccio all’atro quello che ho subito io».
Uno degli aspetti più importanti del suo libro riguarda i meccanismi sul disimpegno morale. Che cos’è e come funziona il disimpegno morale?
«Si tratta di quelle autogiustificazioni che chiunque di noi si dà nel momento in cui mette in atto una condotta che non corrisponde al proprio senso morale. Tanti anni fa, ero ancora studentessa all’università, in Italia si era parlato molto dei ragazzi che lanciavano i sassi dal cavalcavia. E l’autogiustificazione morale che avevano dato era dire ‘non l’ho fatto io, eravamo in gruppo’. Questo è un classico meccanismo di autogiustificazione in gruppi giovanili. Non si sentono responsabili come singoli, perché è stato il gruppo a commettere il reato».
È vero che i giovani sono potenzialmente più violenti delle persone di una certa età?
«È vero. Ovviamente non è una caratteristica, ma è vero che potrebbero esserlo. E dipende dal fatto che sono in evoluzione. Pensiamo a un adolescente. Le pulsioni e le emozioni che prova sono estreme. È un tratto caratteristico di quell’età. Se questo venisse applicato in termini di devianza l’impatto sarebbe più forte. Nel caso del Circeo i protagonisti erano giovani».

Il massacro del Circeo è un caso di rapimento e omicidio a San Felice Circeo (sul litorale pontino) tra il 29 e il 30 settembre 1975. Due giovani amiche, Donatella Colasanti e Rosaria Lopez furono attirate da Gianni Guido, Angelo Izzo e Andrea Ghira in una villa della famiglia di quest’ultimo (nella foto sopra), e torturate fino a provocare la morte di una di loro.


Lei scrive. «Grazie all’analisi delle caratteristiche personologiche della vittima stessa, possiamo cogliere importanti informazioni relative al soggetto deviante». Se conosci la vittima conosci anche il carnefice?
«L’analisi della vittimologia è essenziale. Conoscendo la storia, l’ambiente sociale e le relazioni della persona riesco a capire in che modo è entrata in relazione. Se arriva in studio una vittima io non conosco la persona che sta abusando di lei. Ma attraverso quello che mi racconta capisco come può essere l’abusatore. Lo posso fare anche ricostruendo la personalità di vittime decedute. Io non so chi sia il reo, perciò, se voglio capire chi è, a livello psicologico devo partire dalla vittima, dalla sua autopsia psicologica».


Tra gli strumenti da lei utilizzati per descrivere la personalità c’è il «Big Five Questionnaire»...
«Si tratta dei cinque tratti predominanti della personalità in base ai quali si stabiliscono delle caratteristiche macroscopiche. Abbiamo come strumento diagnostico il DMS5 che utilizza questi cinque tratti: il fattore energia, il fattore amicalità, coscenziosità, la stabilità emotiva e l’apertura mentale. Fondamentalmente, andiamo a ricostruire se sei una persona più propensa agli altri, con un’apertura anche alla cultura (perché ci sono anche delle sotto dimensioni) o se sei più introversa. E possiamo identificare sommariamente le caratteristiche principali».
Lei ha applicato il questionario a una popolazione carceraria di 100 detenuti. Con quali risultati?
«La mia ipotesi di base era che - a parità di ambiente - chi delinque ha lo stesso livello di sviluppo morale di chi non delinque. Per giustificare la tesi ho introdotto il concetto delle autogiustificazioni morali che consentono l’equilibrio».
Lei, quindi, misura il disimpegno morale e la moralità delle persone?
«Sî. E ho concluso che il soggetto deviante non si differenzia rispetto al non deviante in termini di sviluppo, ragionamento, e tipologia morale».
E il cerchio si chiude: lei è tutt’altro che lombrosiana, non è deterministica...
«Io sono favorevole a una lettura scientifica dei fenomeni. E credo nella possibilità di intervento dell’individuo sulle predisposizioni al crimine».