Ecco perché il potere delle Big Tech cresce anche in ambito bellico

Nel dicembre del 1961, nel discorso di commiato pronunciato al termine della sua presidenza, Dwight Eisenhower mise in guardia gli USA contro il crescente potere di quello che definì il «complesso militare-industriale». Un’espressione che, da allora, è diventata paradigmatica. Ma che, oggi, non è più sufficiente a spiegare la realtà, in quanto priva di un terzo, determinante aggettivo: «digitale».
Uno studio pubblicato di recente da Intereconomics (rivista ufficiale della Biblioteca nazionale tedesca di economia, ZBW, e del Centre for European Policy Studies) e firmato da tre economisti italiani - Andrea Coveri, Claudio Cozza e Dario Guarascio - ha chiarito i termini della questione, evidenziando il ruolo determinante delle Big Tech nel «complesso digitale-militare-industriale degli Stati Uniti».
Già nella seconda metà del ’900, dice al Corriere del Ticino uno degli autori dello studio, Andrea Coveri, ricercatore e docente di Economia politica all’Università di Urbino, «si sottolineava la concentrazione di grandi monopoli in alcuni àmbiti chiave. Oggi, quella concentrazione è aumentata in maniera considerevole, toccando picchi mai raggiunti in passato: ci sono 4, 5 imprese sul mercato statunitense - le Big Tech, appunto - che da sole contano tra il 50 e il 60% della capitalizzazione dei mercati di Borsa».
La cosa assolutamente nuova, spiega Coveri, è che queste aziende «esercitano un controllo di tutto l’ecosistema economico-industriale, dato che le loro componenti, le loro tecnologie, sono fondamentali sia per gli altri settori privati sia per gli apparati pubblici».
Sebbene formalmente incasellate nel comparto delle Information and Communication Technologies (ICT), le Big Tech sfuggono a qualunque, possibile collocazione. «Che cos’è Amazon? - si chiede Coveri - È un’impresa che vende libri, certo, ma fa anche moltissime altre cose, e recita un ruolo preponderante nell’ambito delle nuove tecnologie, dell’intelligenza artificiale, degli algoritmi di Machine learning o dei Large Language Models».
Le Big Tech, dice Coveri, «controllano ormai dati, tecnologie per trattare i dati, infrastrutture diventate indispensabili anche ai fini militari. E lo fanno, è curioso pensarlo, dopo aver sviluppato una piattaforma originariamente in mano proprio ai militari, vale a dire Internet. Il complesso militare-industriale di cui parlava Eisenhower era una realtà diversa rispetto a quella odierna, perché coinvolgeva in prevalenza imprese che si dedicavano quasi esclusivamente alla fornitura di prodotti, beni e servizi militari. Pensiamo ai grandi contractor militari tuttora esistenti: Halliburton, Lockheed Martin, Raytheon United Technologies. Ecco, quelle imprese avevano e hanno un unico committente, lo Stato e il suo apparato militare; dipendono in maniera molto significativa dalle commesse pubbliche. Non così, invece, le Big Tech, che hanno sì ricavi crescenti derivanti dagli appalti pubblici, ma che traggono la stragrande maggioranza degli utili dall’àmbito civile, motivo per cui sono molto meno ricattabili dei grandi contractor militari».
Imprese, queste ultime, che a loro volta «fanno ormai uso di componentistiche e di tecnologie fornite dalle Big Tech, come dimostra la molteplicità di contratti stipulati soprattutto con Amazon, Microsoft e Google per la fornitura di servizi cloud e di tecnologia a loro volta incorporati nei sistemi d’arma».