«Ecco perché la guerra è necessaria a questo sistema politico-economico»

Fabio Armao, politologo, è ordinario di Politica e processi di globalizzazione all’Università di Torino, da anni si occupa di teoria e storia della guerra e della diffusione degli attori non statali della violenza. Il suo ultimo lavoro si intitola Capitalismo di sangue. A chi conviene la guerra (Laterza, 2024). Il Corriere del Ticino lo ha intervistato.
Professor Armao, i fronti bellici sono sempre più numerosi. È nota a tutti la definizione di papa Francesco della «Terza guerra mondiale a pezzi». Che cosa sta succedendo? E perché?
«Il concetto di guerra è cambiato, così come sono mutati i suoi presupposti. E il dibattito sul tema non è nuovo, risale agli anni ’90 del Novecento e alla guerra in Yugoslavia. In quel momento, l’elemento principale sul terreno era la proliferazione degli attori non statali della violenza: mercenari, terroristi, organizzazioni criminali con un potere di fuoco considerevole - pensiamo soltanto al Messico, dove da decenni è in atto una sorta di guerra civile con i Narcos che controllano parte consistente del territorio con un proprio esercito. La guerra in Ucraina è parsa un ritorno ai conflitti novecenteschi, fondati sul nazionalismo. Ma non credo che sia così. Anzi: parlare di un ritorno dei nazionalismi è fuorviante, dato che non ci sono in gioco né le ideologie né le masse. In realtà, sono totalmente cambiati i presupposti. Lo dico in modo provocatorio: la politica c’entra sempre meno. Oggi le guerre si basano su criteri oligarchici, economici, capitalistici».
Che cosa intende di preciso?
«Voglio dire che il nostro sistema economico ha bisogno dei conflitti per autoalimentarsi. Beninteso: non ho visioni complottiste della realtà. Tento soltanto di dare una visione complessa a un mondo interconnesso e globalizzato. In passato, Stato e capitalismo sono cresciuti insieme facendo le guerre. Oggi la politica è talmente intrecciata con il capitale da poter sopravvivere soltanto grazie a questa interazione. Una politica non succube del capitale, ma sempre più privatizzata».
Un processo che lei ha ribattezzato «oikocrazia», dai termini greci “kratos”, potere, e “oikos”, famiglia, clan.
«Sì, una forma di governo ormai pressoché universale che riscopre il clan come struttura di riferimento e antepone gli interessi privati dei propri membri a quelli pubblici, agli interessi collettivi. Nel 2020 ho iniziato a parlare di “oikocrazia” poiché, da politologo, vedevo come la politica si stesse sempre più privatizzando mentre il ruolo dei Parlamenti, anche nelle democrazie, andava svilendosi. Donald Trump e Vladimir Putin non sono accomunati soltanto dall’aspetto personalistico del potere. Ma anche dalla scelta di circondarsi di persone appartenenti, appunto, ai rispettivi clan e non di professionisti della politica. L’intreccio pubblico-privato, ormai, è stupefacente. Basti pensare a Elon Musk, il quale gestisce quasi in regime di monopolio il settore satellitare, strategico per la guerra: un potere tecnologico tale da condizionare ogni possibile scenario bellico. Per l’Ucraina sarebbe finita se Musk decidesse di spegnere Starlink».
Qualcuno ha definito tutto questo “capitalismo clientelare”.
«In passato, il clientelismo era considerato patologico. Adesso, è diventato sistema praticamente ovunque: in Russia, in Cina, negli Stati Uniti. Un sistema universale, insomma, che spiega il fatto rilevante del perché la vecchia distinzione tra autocrazie e democrazie stia progressivamente perdendo di significato. Non voglio dire che tutti i regimi sono uguali, ma che molti di essi sono governati da élite in dialogo tra loro. Trump va d’accordo con Putin perché sono due oligarchi, in due sistemi diversi».
Anche se il presidente degli Stati Uniti ha comunque vinto elezioni libere, molto diverse da quelle della Russia di Putin.
«Certamente è così. Ma Donald Trump, da quando è tornato alla Casa Bianca, non ha mai smesso di attaccare la magistratura e lo stesso Congresso, nel tentativo - sin qui riuscito - di limitarne i poteri. E ha scatenato i bombardamenti contro l’Iran senza interpellare il Congresso, violando apertamente la Costituzione. In questo, forse, favorito dalla trasformazione tecnologica della guerra».
In che senso?
«La guerra, oggi, è cambiata. Basti pensare a quanto sia diventata determinante l’arma aerea, con i missili e i droni. Israele ha mosso guerra all’Iran senza mettere sul terreno un solo soldato. Il quadro è quindi completamente cambiato rispetto ai conflitti novecenteschi e agli 85 milioni di morti delle due guerre mondiali. Per quanto, non manchino aspetti nuovi e altrettanto inquietanti».
A che cosa si riferisce?
«Al fatto che le élite non sono più costrette a cercare l’approvazione delle masse. La vecchia distinzione tra combattenti e non combattenti è scomparsa. Nessuno, nei Paesi democratici, pensa alla coscrizione. Si parla di riarmo ma non di ritorno alla leva, che provocherebbe ondate di opposizione soprattutto tra i giovani. I Governi contano inoltre sulla disattenzione delle opinioni pubbliche, le quali non essendo costrette a combattere accettano la guerra senza colpo ferire. E questo è un dato essenziale sul quale bisognerebbe riflettere».
Non crede che sia paradossale che questo avvenga nella società più mediatizzata della storia?
«Forse sì, ma l’idea di opinione pubblica non esiste quasi più. Da decenni è in atto un processo di frammentazione, di anestetizzazione e di atomizzazione sociale generato proprio dallo sviluppo mediatico. Per atomizzare le masse, il nazismo e il fascismo avevano destrutturato le società tedesca e italiana per poi riorganizzarle su base autoritaria. Oggi non c’è più bisogno di repressione e di propaganda. Bastano i social».
Pensa che lo spazio della democrazia si stia riducendo?
«Viviamo uno dei momenti più difficili per la democrazia. Un nucleo duro resiste, in Europa e in Canada. L’Europa, in particolare, possiede tuttora una cultura politica e giuridica solida: se dovesse crollare l’Europa dei diritti, tutto sarebbe molto più difficile. In questo senso, il pride di Budapest, è stato un momento di resistenza importante. Se dovessi immaginare una via d’uscita alla crisi della democrazia, direi che l’unica soluzione rimane la mobilitazione dal basso, soprattutto dei più giovani. Il mondo è in mano alle gerontocrazie, in termini sistemici il problema è la mancanza del ricambio, che non è soltanto legato a partiti e movimenti, ma anche alle generazioni. Mi faccia, però, sottolineare ancora una volta un concetto chiave».
Prego.
«Come ho detto prima, rifuggo le visioni complottistiche. Non credo che il mondo sia diretto da un manipolo di uomini senza scrupoli, quanto piuttosto da una rete molto articolata di clan, di gruppi di potere. Una rete ramificata, dietro la quale agiscono sistemi complessi. L’idea di “oikocrazia” ha alle spalle il clan, ma caratteristica di questi stessi clan è la capacità di reclutare individui provenienti da ambienti diversi e di dare loro risorse e poteri prima rigorosamente distinti».