Ecco perché la transizione luganese potrebbe essere lunga

«Vocazioni al lumicino, parrocchie che vengono accorpate, vescovi che s’inventano di tutto per assicurare la cura pastorale delle realtà loro affidate, messe comprese. In questi ultimi anni abbiamo visto di tutto: unità pastorali, collaborazioni pastorali, preti in condivisione, messe alternate. Fino ai funerali celebrati dai laici, perdurante la scarsità di clero e i seminari sempre più vuoti. È un problema reale, si potrebbe dire di gestione, ma che rappresenta uno shock culturale». Matteo Matzuzzi, vaticanista del Foglio, da anni scruta l’universo ecclesiale tentando di coglierne pulsioni, spinte al cambiamento, tendenze conservatrici. Elementi di una Chiesa in cammino (verso un futuro incerto) che ha riassunto nell’Atlante geopolitico del cattolicesimo, libro edito da Piemme e uscito pochi giorni fa. L’Atlante di Matzuzzi ha come obiettivo principale, indicato in modo chiaro nel sottotitolo, di analizzare «Come cambia il potere» in Vaticano. Un potere che, inevitabilmente, transita dalla ricomposizione delle gerarchie, quindi dalla nomina dei vescovi.
«Il Papa ha innovato molto, rispetto al passato, sulla scelta dell’episcopato - dice Matzuzzi al CdT - di regola preferisce evitare lo spostamento dei vescovi da sedi piccole a sedi più grandi, e non di rado promuove in modo diretto parroci diocesani. Questo perché, ha chiarito più volte, intende evitare il “carrierismo”. Quel sistema per cui, fino a pochi anni fa, i prelati facevano appunto carriera, passando da diocesi meno importanti a incarichi sempre più rilevanti. Francesco ha scardinato tutto questo».
Non senza risvolti negativi o problematici, sottolinea tuttavia il vaticanista del Foglio. «Il cursus honorum aveva in realtà una sua logica, fatta di curriculum significativi e di molteplici esperienze. L’innovazione di Francesco ha sicuramente bloccato il carrierismo, ma ha forse provocato un certo “decadimento” dei vescovi, i quali non sempre si dimostrano all’altezza dei propri compiti».
Dato il contesto, prosegue Matzuzzi, il Papa tende comunque a darsi «un indirizzo abbastanza costante. Se c’è una diocesi in difficoltà economica, come per esempio accade a Lugano, di solito viene nominato un amministratore apostolico che guida la curia a lungo. Questo perché uno dei compiti dello stesso amministratore è presentare una relazione finanziaria dettagliata , che servirà al pontefice per decidere quale sia il profilo migliore o più adatto».
Fermo restando che l’esito finale del processo di nomina è comunque «totalmente impronosticabile, così come dimostrano molti esempi del recente passato, nei casi simili a quello ticinese «la scelta di Francesco è quasi sempre caduta su un religioso con esperienza gestionale, e non sul prete di paese».
Il Papa ascolta sempre molte voci, ma alla fine è lui a decidere. «Anche le famose “terne” di cui spesso si sente parlare, hanno un valore unicamente orientativo. A Genova, ad esempio, monsignor Marco Tasca non era in alcuna terna. Francesco lo conosceva personalmente e lo ha voluto come arcivescovo della città ligure. Allo stesso modo è accaduto con il cardinale Matteo Zuppi, che nessuno aveva indicato e che il Papa ha messo sulla cattedra di San Petronio dopo averlo visto al lavoro nella Comunità di Sant’Egidio, a Roma». Lo stesso Zuppi che, pochi mesi fa, il pontefice argentino ha imposto - da primate della Chiesa di Roma - come presidente della Conferenza episcopale italiana.