Accordo dell’OPEC a Vienna: lieve rialzo della produzione

La riunione ministeriale dell’OPEC+, tenutasi ieri a Vienna, ha confermato l’aumento dell’offerta di 400.000 barili giornalieri per marzo, secondo la strategia definita lo scorso luglio, resistendo alle pressioni per una maggiore apertura, provenienti soprattutto da Stati Uniti ed India. Il petrolio registrava in serata una quotazione intorno agli 88 dollari al barile per il WTI americano (+17,25% da inizio anno) e di 89,10 per il Brent londinese (+14,44)%, che aveva raggiunto la scorsa settimana i 91,70 dollari, al massimo dall’ottobre 2014.
L’OPEC, che avrebbe comunque problemi ad aumentare la produzione, rimprovera alle nazioni consumatrici gli scarsi investimenti nel campo dei combustibili fossili alla luce dell’attenzione riservata alla transizione «verde», che si sta rivelando più lenta e complessa del previsto. Ne è prova la crisi energetica in cui si dibatte l’Europa, la discussione circa l’etichetta «green» per metano e nucleare, i tentativi per colmare gli eventuali ammanchi energetici di fronte russa, a causa della crisi ucraina, con improbabili forniture del Qatar.
Domanda ai livelli pre-virus
L’offerta petrolifera appare limitata, anche a causa della crisi libica, mentre, secondo un rapporto predisposto dal Joint Technical Committee dell’OPEC, la domanda dovrebbe assestarsi per il 2022 intorno ai 99,5 milioni di barili giornalieri, ma con un progressivo aumento nella seconda parte dell’anno, ritornando ai livelli pre-pandemia, al di sopra dei 100 milioni di barili giornalieri raggiunti nel 2019.
Il rapporto evidenzia la possibilità di un modesto surplus nella prima parte dell’anno (1,3 milioni di barili), le incertezze legate alle varianti del virus ma anche i colli di bottiglia nelle forniture e le politiche delle banche centrali per contrastare l’inflazione. Sottolinea la carenza di investimenti effettuati e l’innalzamento del livello di rischio geopolitico in molte regioni.
Pesa la geopolitica
E’ proprio il fattore geopolitico ad assumere un’importanza centrale: gli attacchi missilistici delle milizie Houthi, finora rivolti alle infrastrutture saudite, hanno raggiunto, con l’impiego di droni, Abu Dhabi, destando un comprensibile allarme nel Golfo. In Europa orientale, l’attacco della Russia, anche parziale, all’Ucraina e le conseguenti sanzioni, avrebbero un’influenza sul prezzo. Si ritiene che il «premio» di rischio geopolitico del petrolio si situi ben al di sopra dell’abituale soglia del 10%.
Vi sono altri aspetti che influenzano la strategia OPEC, ad iniziare dai costi di produzione nei diversi Paesi ed i prezzi di «break even» fiscale che sarebbero necessari al produttore per pareggiare i conti pubblici. Se ad esempio per l’Iran sarebbe auspicabile un prezzo di oltre 360 dollari al barile, per Kazakhstan e Bahrain un valore al di sopra dei 100 dollari sarebbe sufficiente, 82 per l’Arabia Saudita, che in effetti raggiunte per il 2022 il pareggio di bilancio dopo svariati anni; 71 per l’Oman, 66 per il Kuwait ed addirittura 46 per il Qatar, che così beneficia ampiamente dell’attuale scenario. Ma il costo marginale di produzione è altrettanto importante, condizionato da aspetti ambientali e tecnici. Se consideriamo il caso russo, il costo «onshore» è di 18 dollari al barile, mentre quello nell’Artico sale a 120. Negli USA il costo per le piattaforme oceaniche è di 57 dollari al barile, mentre quello shale è di 73. Il Venezuela ha un costo di 20 dollari, il Kazakhstan di 16, i Paesi del Golfo e del Nord Africa intorno a 15, per poi arrivare ai 6-7 dollari dell’Iraq e degli Emirati ed ai soli 3 dollari dell’Arabia Saudita, per i campi «onshore».
Questi fattori tecnici e finanziari si uniscono a quelli politici, determinando all’interno dell’OPEC schieramenti di «falchi» (con l’Iran in testa), «colombe» e, in posizione intermedia, la Russia, desiderosa di sfruttare il favorevole momento di mercato, anche quale arma strategica, ed impermeabile alle pressioni occidentali.
Riserva in caso di crisi
Un grande tema sul tappeto è quello della riserva di offerta in caso di eventi eccezionali, bellici o terroristici. Secondo molti operatori a metà 2022 questa capacità potrebbe risultare talmente ridotta (limitata ad Arabia Saudita ed Emirati) che, nel caso di un «cigno nero», il prezzo potrebbe schizzare fino a 150 dollari, come accaduto nel 2008 grazie alla forte domanda cinese. L’immissione delle riserve strategiche USA si è rivelata finora poco influente.