L'analisi

Banche centrali, il cambio di rotta e i successi contro l’inflazione

Gli istituti di emissione sono arrivati tardi ma ora stanno vincendo la sfida, che è quella del rincaro basso senza recessione – La battaglia non è ancora terminata, però la conclusione dell’ondata di aumenti dei tassi di interesse a questo punto è meno lontana
© BARBARA GINDL
Lino Terlizzi
Lino Terlizzi
18.09.2023 06:00

Le maggiori banche centrali sono state protagoniste di un ampio cambiamento di linea e ora registrano alcuni successi non secondari nella lotta contro l’inflazione. Dopo aver sottovalutato molto a lungo il riemergere dei rincari, i principali istituti centrali nel 2022 hanno finalmente cambiato posizione e hanno attuato rilevanti rialzi dei tassi di interesse. Il ritardo accumulato in precedenza - con l’indicazione insistita di un presunto rischio di deflazione (diminuzione dei prezzi) – li ha portati a dover accelerare nell’aumento del costo del denaro. Nonostante questa accelerazione forzata, le banche centrali nella loro versione anti rincari sin qui stanno vincendo la sfida centrale: abbassare di molto l’inflazione, senza però arrivare ad una recessione internazionale provocata dal freno alla domanda legato all’incremento dei tassi.

Le cifre

La battaglia contro i rincari eccessivi non è ancora terminata, ma i progressi su questo terreno sono visibili. Alcuni esempi. Gli Stati Uniti hanno registrato il picco di inflazione su base annua con il 9,1% del giugno 2022, mentre nell’agosto 2023 hanno archiviato un 3,7%. L’Eurozona ha avuto il suo picco di fase con il 10,6% dell’ottobre 2022 e il mese scorso era al 5,3%. Il Regno Unito ha registrato il suo massimo con l’11,1% (indice CPI) sempre nell’ottobre dell’anno scorso e nel luglio di quest’anno era al 6,8%. La Svizzera ha avuto il suo picco con il 3,5% dell’agosto dell’anno passato e un anno dopo, cioè il mese scorso, era all’1,6%. Il Giappone ha avuto il suo massimo con il 4,3% del gennaio 2023 ed era al 3,3% nel luglio scorso. L’obiettivo delle maggiori banche centrali è avere un’inflazione media annua del 2%, dunque ancora non ci siamo, ma i miglioramenti sono evidenti. La Svizzera, che ha come obiettivo la fascia 0%-2%, è dal canto suo tra i Paesi meglio messi.

Nonostante i lievi rimbalzi dell’inflazione negli USA tra luglio ed agosto, nel complesso l’onda degli aumenti dei tassi ha avuto sin qui successo. Ciò è vero per gli Stati Uniti, ma anche in buona sostanza per l’Europa. Quanti criticano gli incrementi dei tassi europei indicano spesso che nel Vecchio continente più che altrove l’inflazione alta è arrivata con il balzo dei prezzi dell’energia (accentuato dall’invasione russa dell’Ucraina), non con il buon livello della domanda, come negli USA. In questa posizione c’è una parte di verità, ma non tutta la verità. È vero che dal 2022 soprattutto in Europa si è sentito molto il peso dei rincari del settore energia (peso poi peraltro ridimensionato), ma è anche vero che pure alle latitudini europee il parziale freno alla domanda, legato ai tassi più alti, ha giocato per la sua parte il ruolo anti inflazione.   

Le mosse

Nei giorni scorsi la Banca centrale europea ha alzato di un quarto punto i tassi di riferimento sull’euro, portando il principale al 4,5%. Al tempo stesso, il vertice BCE nelle sue affermazioni ha però lasciato intendere che il lavoro anti inflazione è già stato fatto per una quota importante. Questa settimana ci saranno le decisioni di altre banche centrali di primo piano. L’americana Federal Reserve, che è stata tra le prime a iniziare la battaglia anti inflazione, deve decidere se attuare un altro ritocco all’insù del tasso di riferimento sul dollaro USA (che è al 5,5%) o se restare ferma; molti analisti indicano come più probabile questa seconda ipotesi, vedremo. Discorso analogo per la Banca nazionale svizzera, che pure deve decidere se alzare il tasso sul franco (che è all’1,75%) o anche no, visti i risultati già ottenuti. Più complesso il quadro per la Bank of England (tasso al 5,25%), che deve fare i conti con un‘inflazione britannica che è diminuita meno che altrove. Un altro mondo è quello della Bank of Japan (tasso ancora -0,10%), che deve decidere se rimanere dove è da molto tempo, o muoversi. 

La crescita

Le previsioni delle maggiori istituzioni economiche non indicano recessioni annue mondiali. C’è un rallentamento economico internazionale, questo sì, ma sono molto pochi i Paesi per i quali è previsto un segno negativo annuo. L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, sin qui hanno indicato previsioni di crescita mondiale tra il 2% e il 3%, sia per il 2023 sia per il 2024. Quanto alla Svizzera, la Segreteria di Stato dell’economia sinora ha indicato una crescita elvetica dell’1,1% nel 2023 e dell’1,8% nel 2024 (PIL corretto dagli eventi sportivi). Vedremo nei prossimi giorni le nuove previsioni di Berna, ma sulla base dei dati disponibili pare difficile che venga indicato un segno negativo annuo per l’economia rossocrociata.

 

Solidità economica e costo del denaro dietro il valore delle singole valute

Tra i fattori che danno valore ad una moneta ce ne sono tre di particolare rilievo: la forza dell’economia del Paese o dell’area che la esprime; l’affidabilità del sistema Paese o dell’area in questione; il livello dei tassi di interesse su quella valuta. Una moneta tende ad acquisire valore quando questi fattori sono alti. Talvolta si tratta di un mix dei tre, talvolta ne bastano uno o due. Esistono valute che sono stabilmente nel gruppo di testa, quindi abbastanza spesso ricercate dagli investitori, altre che sono solo occasionalmente oggetto di interesse da parte di quest’ultimi, altre ancora su cui in genere non si accendono i riflettori dei mercati internazionali.

Scambi e riserve

Se si guarda ai dati degli scambi globali e delle riserve valutarie, si può vedere come il dollaro USA rimanga di gran lunga la valuta principale, nonostante alcune flessioni della sua quota di mercato. Al secondo posto c’è l’euro. Il franco svizzero è nella top ten mondiale, all’ottavo posto per l’esattezza, ma ha un ruolo particolare perché viene considerato una classica valuta rifugio. A tenere alto il valore del franco non è tanto il livello dei suoi tassi di interesse – che sono in genere bassi, anche perché è bassa l’inflazione elvetica – quanto piuttosto la forza dell’economia svizzera, a cui contribuisce l’attivo nei commerci, e l’affidabilità del sistema Paese, che è supportata anche da un basso indebitamento pubblico e da una marcata stabilità politica e sociale. Sia il dollaro USA sia l’euro hanno dietro di essi la forza delle loro economie e l’affidabilità del sistema Paese o area. A differenza però della piccola Svizzera, che ha una crescita economica non eclatante ma molto costante, gli Stati Uniti e l’Eurozona (composta ora da 20 Paesi) sul versante della crescita e delle valute hanno avuto ed hanno oscillazioni non secondarie; inoltre, pur restando elevata la loro affidabilità, hanno indebitamenti pubblici non bassi (specie gli USA) e non hanno gradi di stabilità politica e sociale comparabili a quello elvetico. Per il dollaro e per l’euro, come per molte altre valute, assume quindi un maggior peso il livello dei tassi di interesse. Quando questi sono più alti in genere cresce l’attenzione degli investitori verso la moneta, viceversa quando sono più bassi. Ciò detto, è interessante vedere come sono andate le cose negli ultimi mesi per euro, dollaro, franco svizzero. Il biglietto verde americano, che in precedenza era salito, ha perso terreno sulle altre valute principali negli ultimi dodici mesi (ai valori di venerdì scorso, -6% sull’euro e -7% sul franco). È probabile che sulla discesa del dollaro abbia influito il ridursi della distanza tra gli alti tassi di interesse USA, che avevano prima spinto il biglietto verde, e quelli delle altre aree, nel frattempo in aumento. Nelle ultime settimane peraltro il dollaro ha riguadagnato parzialmente terreno, sorretto sia dalla forza dell’economia USA sia dall’impressione che anche le altre aree siano ormai vicine al tetto dei tassi.

La moneta elvetica

L’euro ha come visto ripreso campo nell’ultimo anno sul dollaro ed ha invece perso sul franco (circa l’1%, ma era già sceso in precedenza). Nelle ultime settimane la moneta unica europea ha appunto riceduto alcune frazioni al biglietto verde; la resilienza dell’economia dell’Eurozona c’è ma è ora minore di quella degli USA, inoltre vale il ragionamento sul tetto dei tassi. L’avanzata negli ultimi due anni del franco svizzero, che ha tassi di interesse ora più alti ma comunque ben più bassi di quelli di Stati Uniti ed Eurozona, è in gran parte legata ancora una volta all’affidabilità del sistema Paese ed alla resilienza di fondo dell’economia elvetica. Il rialzo dei tassi svizzeri ha pure aiutato il franco, ma probabilmente non così tanto. I livelli raggiunti dal franco sono molto alti e la gran parte degli analisti vede ora come difficili ulteriori forti ascese. Ma per la valuta elvetica vengono ritenute improbabili, per le ragioni citate, anche marcate discese.