Focus

Con i Gilet Gialli, Francia al verde

Il movimento ha motivazioni soprattutto politiche e un programma economico per molti aspetti irrealistico - Fortunatamente il Paese è in una situazione ben diversa da quella descritta dai manifestanti in questi mesi
Lino Terlizzi
Lino Terlizzi
04.01.2019 06:00

Partito dalla protesta contro un aumento dell’imposizione fiscale sui carburanti, in Francia il movimento dei Gilets Jaunes, i Gilet Gialli, si è ampliato e ha finito per occupare largamente la scena nazionale negli ultimi due mesi. Per la verità il numero dei manifestanti non è stato molto alto – circa 300 mila in tutta la Francia, nel momento più acceso della protesta – ma il movimento ha fatto parecchio clamore, per almeno tre motivi: la sorpresa (tutto è emerso in tempi abbastanza rapidi), la rabbia che è diventata talvolta anche violenza (con il centro di Parigi messo a ferro e fuoco in alcune giornate), la vicinanza su alcuni temi con i movimenti populisti di altri Paesi europei. La Francia descritta dai Gilet Gialli è un Paese attraversato da un forte aumento della povertà e da un alto incremento delle diseguaglianze economiche e sociali. Ma la Francia è davvero nella situazione indicata dai partecipanti alla protesta?

Seconda economia dell’Eurozona alle spalle della Germania, la Francia non è priva di problemi economici, ma è in realtà lontana dal quadro drammatico che emerge dalla narrazione prevalente tra i Gilet Gialli. Vediamo più da vicino. Eurostat indica la percentuale della popolazione dei Paesi dell’Unione europea che a suo parere è “a rischio di povertà o di esclusione sociale”. Si può discutere una definizione così ampia del rischio povertà, ma prendiamola pure in prestito, per poter fare un confronto. Ebbene, nonostante l’ampiezza della formula, la Francia aveva nel 2017 una percentuale del 17,1%, contro una media dell’UE del 22,5%. Nel 2008 la Francia era al 18,5% e l’UE al 23,7%. C’è stata dunque nel tempo una diminuzione del rischio povertà, che può essere ancora non sufficiente. Ma non c’è stato un aumento, né nell’UE né tantomeno in Francia.

L’ultimo documento dell’Unione europea sulle previsioni economiche, pubblicato nel novembre scorso, ci consente inoltre di vedere qual è la situazione per quel che riguarda l’incremento annuo in percentuale delle retribuzioni reali (cioè tenendo conto dell’inflazione), pro capite. In Francia questa è stata l’evoluzione nei quattro anni dal 2014 al 2017: +1,2%, +0,7%, +0,9%, +0,6%; e questo è il quadro negli stessi anni nel complesso dell’UE: +0,4%, +1%, +1,1%, +0,4%. Su entrambi i versanti ci sono stati aumenti in termini reali – che per la cronaca si sono uniti a quelli già registrati negli anni precedenti – ma come si vede la media francese nei quattro anni supera quella dell’UE (+0,8% contro +0,7%). Può darsi che per una parte della popolazione questi aumenti ancora non siano sufficienti. Ma non si può sostenere che ci sia stata una contrazione dei salari reali.

Visto che il movimento di protesta francese è nato formalmente da un no all’aumento del prezzo di carburanti, è interessante anche vedere quale sia stato negli ultimi anni il rincaro (o inflazione) complessivo, di tutti i beni nel paniere. Tra i contrari ai Gilet Gialli c’è stato infatti anche chi ha sottolineato come il poi sospeso rincaro dei carburanti, pur discutibile, non fosse così insostenibile. In effetti, secondo il citato documento UE, dal 2014 al 2017 la media dell’inflazione annua in Francia è stata pari allo 0,5%, mentre per la UE è stata dello 0,6%. Dunque, rincaro generale basso per tutti. E in Francia ancora più basso rispetto alla media UE.

Veniamo all’argomento diseguaglianza. Interessante è vedere a questo proposito il Coefficiente Gini (che deve il suo nome allo statistico italiano Corrado Gini, 1884-1965) per il reddito disponibile equivalente, indicato da Eurostat in una scala da 0 a 100. Più è alto è il numero in un Paese, più è alta la diseguaglianza al suo interno. Ebbene, a fine 2017 la media dell’Unione europea era a 30,3; il massimo era della Bulgaria a 40,3, il minimo della Slovacchia a 23,2. La Francia era sotto la media UE, a 29,3. Per inciso, si tratta di un punteggio analogo a quello della Svizzera, che era a 29,4 (dato di fine 2016). Si può aggiungere che nel 2011 l’UE e la Francia erano entrambe a 30,8; la prima è dunque diminuita (cioè migliorata) in sei anni di 0,5 punti, la seconda di 1,5 punti. I dati quindi indicano che la Francia non è tra i Paesi europei in cui la diseguaglianza è più pronunciata e che comunque questa tra il 2011 e il 2017 è diminuita. Di nuovo, si può discutere del fatto che questa riduzione sia sufficiente o no (dipende dai punti di vista). Ma le cifre mostrano che non c’è stato un aumento della diseguaglianza.

Se dunque la narrazione dei Gilet Gialli è esagerata e staccata dai dati reali, perché tutta questa aggressività? L’analisi a questo punto si deve spostare sull’orientamento politico che emerge nel movimento, accanto a quello di gruppi di partecipanti invece più apolitici. Un programma del movimento Gilet Gialli, circolato online all’inizio di dicembre, mostra un orientamento in cui convergono posizioni populiste, di destra e di sinistra. Tra i 25 punti del programma compaiono infatti la Frexit (uscita della Francia dall’UE); l’abbandono della NATO da parte della Francia; lo stop immediato alle privatizzazioni; le assunzioni massicce di funzionari in stazioni, ospedali, scuole, poste; il divieto di imballaggi in plastica; l’aumento del 40% del salario minimo; l’annullamento del debito. Tralasciando l’assenza di realismo nei punti più “economici”, da questo elenco di obiettivi principali emerge nel complesso un’impostazione populista trasversale, che si affianca ad altre simili in Europa.

La Francia non è messa così male ma, come si diceva, non è priva di problemi. Però le ricette che vengono dalla parte più politicizzata dei Gilet Gialli non possono risolvere questi problemi, semmai li possono aggravare. Tra il 2014 e il 2017 la crescita economica francese è stata inferiore alla media dell’UE, ma il PIL è comunque progredito e l’uscita dall’euro e dall’UE non garantirebbe di per sé una maggiore crescita, anzi porrebbe nuovi grandi problemi; lo stop alle privatizzazioni e le assunzioni massicce in enti pubblici, in un Paese in cui lo Stato è già molto presente, pure non garantirebbero una maggiore crescita e anzi la frenerebbero. La disoccupazione francese, più alta della media UE, diminuirebbe solo nel breve con altre assunzioni pubbliche e aumenterebbe invece nel medio-lungo a causa del peso fiscale e della mancanza di efficienza del sistema. Il deficit e il debito pubblici francesi sono pure più alti della media UE, ma con un fantapolitico annullamento del debito la Francia sarebbe fuori dai mercati e non più in grado di collocare i suoi titoli pubblici: la via maestra resta invece quella della riduzione graduale del debito, soprattutto attraverso tagli alle spese pubbliche improduttive.

Si può essere d’accordo o criticare la linea del presidente francese Emmanuel Macron, ma è un fatto che il suo partito centrista En Marche cerchi comunque di agire in un quadro di realismo. L’azione e gli obiettivi dei Gilet Gialli possono probabilmente piacere all’estrema destra di Marine Le Pen e all’estrema sinistra di Jean-Luc Mélenchon, ma non possono essere la risposta ai problemi della Francia. I dati di lungo periodo indicano che ovunque una maggiore crescita si può ottenere con l’apertura economica, con un terreno favorevole all’innovazione nelle imprese e nella società, con conti pubblici sotto controllo. E che un’ulteriore distribuzione dei vantaggi della crescita si può ottenere con la coesione sociale e con uno Stato funzionante ma non debordante. Con le ricette dei Gilet Gialli, la Francia sarebbe al verde.

Un partner di rilievo per la Svizzera
Dal punto di vista economico quanto conta la Francia per la Svizzera? Non poco. Se si guarda ad esempio agli scambi commerciali, che non esauriscono il discorso dei rapporti economici ma certo ne rappresentano una parte molto importante, ebbene sommando esportazioni e importazioni di beni la Francia è il quarto o il sesto singolo partner commerciale per la Svizzera, a seconda dei metodi di calcolo. In ogni caso, la Francia resta nel gruppo di testa dei partner della Confederazione.

Vediamo più da vicino, prendendo i dati dell’Amministrazione federale delle dogane (AFD) per il 2017. Seguendo il totale congiunturale (che non comprende pietre e metalli preziosi, oggetti d’arte e antichità), la somma degli scambi franco-elvetici è pari a 28,7 miliardi di franchi, con la Francia quarto partner della Svizzera, alle spalle di Germania, Stati Uniti, Italia. Alla somma si arriva in questo modo: esportazioni svizzere verso la Francia 14 miliardi di franchi (6,4% dell’export elvetico), importazioni svizzere dalla Francia 14,7 miliardi di franchi (7,9% dell’import elvetico).

Se si prende il totale generale fornito dall’AFD, che comprende invece anche preziosi, oggetti d’arte e antichità, la somma degli scambi è nettamente più alta: 35,1 miliardi di franchi, con la Francia sesto partner della Svizzera, alle spalle di Germania, Stati Uniti, Cina, Regno Unito, Italia. A questa somma si arriva così: esportazioni svizzere verso la Francia 17,2 miliardi di franchi (5,8% dell’export elvetico), importazioni svizzere dalla Francia 17,9 miliardi di franchi (6,7% dell’import elvetico). Con questo metodo di calcolo la somma è ancor più rilevante, ma la Francia scende di due posizioni in classifica, per via del maggior peso di Cina e Regno Unito nei commerci legati ai metalli preziosi (oro soprattutto). La Francia anche in questo caso rimane comunque in buona posizione nella classifica degli scambi elvetici.

Oltre a quello degli scambi commerciali, c’è naturalmente anche il parametro degli investimenti. Secondo i dati forniti dal Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE), a fine 2016 gli investimenti svizzeri in Francia erano pari a 51 miliardi di franchi e si concentravano principalmente nelle regioni di frontiera e nell’Île de France (la regione di Parigi). A questi investimenti elvetici erano legati circa 103 mila impieghi. Gli investimenti francesi in Svizzera erano d’altro canto nello stesso anno pari a 40 miliardi di franchi e gli impieghi legati a questi erano circa 60 mila; la Francia secondo il DFAE è il terzo investitore estero nella Confederazione.

Un altro capitolo non piccolo è quello del turismo, che pure contribuisce per la sua parte alle relazioni economiche franco-elvetiche. Nel 2017, sempre seguendo i dati ripresi dal DFAE, il numero di notti passate in Svizzera da turisti francesi è stato di oltre 1,24 milioni; la Francia è così il quinto Paese per importanza per il turismo svizzero, alle spalle di Germania, Stati Uniti, Regno Unito e Cina. Nel 2016 i turisti svizzeri hanno dal canto loro passato in Francia oltre 3,1 milioni di notti.

La frontiera comune tra Svizzera e Francia è lunga quasi 600 chilometri e ciò anche spiega la rilevanza degli scambi economici transfrontalieri, che in Svizzera riguardano in particolare l’agglomerato di Ginevra, la regione del lago Lemano, lo spazio Monte Bianco, il Reno superiore e l’Arco giurassiano. È francese la quota maggiore dei frontalieri che ogni giorno varcano il confine per lavorare in Svizzera. I dati più recenti dell’Ufficio federale di statistica (UFS) a questo riguardo sono quelli del novembre scorso, relativi al terzo trimestre del 2018. Sul totale di 312.325 frontalieri stranieri, 169.879 sono francesi. Seguono 71.388 italiani, 60.416 germanici, 8.311 austriaci, 2.311 di altri Paesi.

I frontalieri stranieri sono nel complesso calati sia rispetto al secondo trimestre (-0,9%), sia in rapporto a dodici mesi prima (-0,8%). In questo quadro, il numero dei frontalieri francesi è diminuito dell’1% rispetto al trimestre precedente ma è aumentato dello 0,5% in rapporto a un anno prima, cioè al terzo trimestre del 2017. Il numero dei frontalieri italiani è sceso sia su base trimestrale (-1,2%) che su base annua (-3,1%); quello dei frontalieri germanici pure è calato sia in rapporto al secondo trimestre (-0,7%) che a un anno prima (-2,1%); stesso discorso per i frontalieri austriaci, rispettivamente -0,1% e -0,5%. In aumento sia su base trimestrale che annua invece i frontalieri di altri Paesi, il cui numero complessivo è però appunto limitato.