L'analisi

Controllo dei materiali critici, la base del dominio cinese

È una strategia che viene da lontano e fa i conti con dazi e sanzioni - Pechino ha di fatto il dominio di questi minerali fondamentali per l'industria tecnologica in generale, ma anche per quella militare sempre più strategica in una logica di confronto
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Gian Luigi Trucco
23.08.2025 00:00

Le mosse erratiche del presidente Trump tengono banco, ma connesso con questo tema ve ne è un altro forse più importante, che riguarda la penuria di minerali critici in Occidente e soprattutto il dominio di Pechino nei mercati di queste materie prime strategiche. Si tratta di un aspetto cruciale che trascende le mere relazioni commerciali fra Pechino e Washington e pone in gioco quella leadership tecnologica e militare che l’America teme di perdere, fino a impatti forse più banali, come quelli legati all’industria automobilistica. Vari produttori si sono trovati costretti a ridurre o bloccare la produzione, come era avvenuto in Giappone nel 2010, quando la Cina interruppe l’export in seguito alla contesa sulle Isole Senkaku. La questione è sì legata alle strategie della Casa Bianca su dazi e tariffe, ma in realtà si inquadra in un piano ben più ampio che Pechino persegue da tempo, facendo di questi prodotti uno strumento di pressione geopolitica ed utilizzando il suo poderoso apparato burocratico.

Diversificare le fonti

L’alternativa che l’Occidente percorre è quella di diversificare le fonti di produzione e di lavorazione, ma i relativi piani non sono di facile realizzazione. E in gioco vi è il futuro di settori rilevanti sul piano commerciale e sociale, dall’elettronica di consumo agli schermi, alla tecnologia medicale, semiconduttori, auto e batterie, ma anche materiale militare ed aerospaziale, dai sistemi di guida dei missili fino agli aerei da combattimento. Il tema della dipendenza sfocia così in quello critico della vulnerabilità.

I metalli delle terre rare, appartenenti alla serie del lantanio, sono fondamentali nell’high-tec h avanzato, la Cina ne controlla il 58% della produzione globale e la quasi totalità della raffinazione e lavorazione, complessa, costosa e pericolosa in termini ambientali e sanitari. Oltre che in questo comparto specifico, la posizione dominante cinese si estende poi ad altri minerali quali litio, cobalto, grafite.

Come affermò il padre dello sviluppo economico cinese Deng Xiaoping, «se il Medio Oriente ha il petrolio, noi abbiamo le terre rare» e da allora esse sono state oggetto di uno stretto controllo commerciale, con restrizioni continue che sono culminate in coincidenza delle sanzioni di Washington del 4 aprile.

Se quello delle tariffe rappresenta l’ultimo capitolo di una lunga saga cinese, i suoi componenti principali stanno nell’aver di fatto contrastato con ogni mezzo la concorrenza, nell’aver acquisito nel tempo la tecnologia del settore e la relativa supply chain e nel controllare rigidamente l’export.

Manipolare il mercato

La burocrazia di Pechino è efficiente e si è perfezionata lungo più di 1.500 anni di storia, le procedure e le documentazioni per ogni operazione commerciale sono macchinose, centralizzate. La modulistica per gli operatori esteri è complessa, i questionari infiniti e intrusivi, destinati alla raccolta di informazioni non solo statistiche. Quanto all’uso strategico di tali materiali, è notizia recente la chiusura di una importante miniera di litio, in concorrenza con l’omologa cilena, motivata con una presunta «sovrapproduzione». Una scelta che ha fatto salire significativamente il prezzo del metallo. Come si profila la risposta occidentale? Negli USA vari programmi puntano sulla ricerca di siti minerari nazionali, soprattutto in Texas, su piani di sviluppo della lavorazione, anche attraverso alleanze internazionali e compatibilmente con i vincoli di tipo ecologico e sanitario, certo più elastici rispetto a quelli applicati in Cina. Washington ha perfino avviato al riguardo trattative con il Pakistan, considerato fino a poco tempo fa troppo legato ai talebani e sponsor del terrorismo.

Washington punta a stigmatizzare l’ampio impiego del carbone da parte cinese, l’uso del lavoro forzato, per esempio degli uiguri nelle miniere dello Xinjiang, promuovendo normative di contrasto che potrebbero sfociare in sanzioni e puntando a un dazio «speciale» (carbon tariff) destinato a colpire l’impiego di tale combustibile: una iniziativa peraltro paradossale, visto che un decreto esecutivo dello stesso Trump incentiva l’uso del carbone, insieme a petrolio e gas.

Mentre la percezione del rischio aumenta a Bruxelles come a Washington, le linee-guida della risposta occidentale contemplano, oltre al non facile onshoring, cioè rimpatrio di attività, la reindustrializzazione e la diversificazione dei fornitori.

Le regole dell’Unione europea

La componente politica è presente su ambedue le sponde dell’Atlantico, per esempio per quanto concerne l’approccio ai temi ecologici ed etici, ma anche la burocrazia gioca un ruolo altrettanto importante di quella cinese. Ad esempio il CRMA-Critical Raw Materials Act dell’Unione europea, oltre a promuovere produzioni domestiche, per esempio in Ucraina (da cui l’interesse nei suoi confronti), fissa un target del 10% di capacità domestica rispetto ai consumi annuali entro il 2030 e stabilisce che non più del 65% del consumo stesso possa derivare da un Paese terzo, che ovviamente è la Cina. Obiettivi giudicati ambiziosi, se non decisamente utopistici. A ciò si aggiungono le regolamentazioni, spesso complesse, in materia di compliance, cui gli operatori e i trader sono soggetti, nonché le distorsioni con cui attualmente si confronta la logistica globale.

Altre considerazioni riguardano il valore del dollaro USA e i prezzi dei minerali. Infine, tende a svilupparsi il cosiddetto urban mining, cioè il riciclaggio di materiale strategico non più utilizzato, che può affiancare la produzione  extra-cinese.

Ma tutto questo è a livello di progetto, o di realizzazione iniziale. Per ora la supremazia cinese nel settore permane, il copione delle trattative su dazi e tariffe è ancora in gran parte da scrivere e, piaccia o no, il potere del Celeste Impero nelle trattative con l’Occidente ne risulta rafforzato.