Creare valore per gli azionisti è il vero mandato dei manager

Il fallimento di Credit Suisse ha, tra le altre cose, portato alla rinuncia del bonus supplementare di 30 milioni di franchi ai top manager della banca, accordata nell’ottobre scorso in caso di successo dell’allora annunciato piano di ristrutturazione. Come abbiamo commentato negli scorsi giorni, il gesto è più simbolico che di sostanza, ma ha avuto il pregio di far riaprire l’annoso dibattito sui bonus dei manager, un tema che affrontiamo in modo più allargato con Carmine Garzia, professore di Strategia aziendale e imprenditorialità alla SUPSI.
Una pratica non nuova
Mentre il concetto di «gestione per obiettivi» in azienda risale agli anni Cinquanta del secolo scorso, la cultura del bonus come la conosciamo oggi si diffonde in particolare a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta nelle grandi «public company» americane, quelle cioè dove la proprietà è separata dal management, allo scopo di «allineare» il management con gli interessi della proprietà e di portare l’attenzione degli amministratori delegati sulla creazione di valore.
«A quell’epoca – spiega Garzia – c’era stata una forte tendenza a diversificare le aziende, tipicamente attraverso le acquisizioni, che faceva sì che gli amministratori delegati non si concentravano abbastanza sulla creazione di valore per gli azionisti. La pratica del bonus è stata poi traslata alle nostre latitudini e applicata sia nelle aziende quotate in Borsa, sia nelle imprese a controllo familiare, nelle quali la famiglia proprietaria non gestisce direttamente l’azienda ma si affida a un team di manager professionisti».
Misurare più variabili
È noto come in certi casi i bonus possono essere distorsivi nel comportamento dei top manager quando sono principalmente legati alla creazione di valore, tipicamente al corso delle azioni in Borsa. Il perseguimento dell’obiettivo di massimizzare il valore per gli azionisti implica però dei criteri che possono non essere compatibili con il successo di lungo periodo dell’azienda e che possono nascondere una serie di debolezze e di «underperformance», sia dell’azienda, sia dei suoi dirigenti.
Secondo l’esperto, «bisognerebbe considerare più variabili nella politica remunerativa di un’azienda. Lo “shareholder value” è certamente la variabile più facile da misurare, serve però stabilire una cultura del bonus che, pur tenendo sempre ben presente l’obiettivo della creazione di valore, sia contemperata anche da altri obiettivi, quali la crescita duratura e sostenibile dell’azienda, la soddisfazione dei clienti e dei collaboratori, la solidità finanziaria, ecc. In generale, alla luce anche del diffondersi dei principi ESG, le aziende iniziano ora a misurare le performance dei manager anche sulla base dei risultati sul versante sociale».


Non solo top manager
Nel dibattito sui bonus l’attenzione si focalizza quasi esclusivamente sui ranghi più alti delle aziende, come il Cda e il management «C-level» (CEO, CIO, CFO ecc.), un po’ perché queste figure sono più visibili pubblicamente, o anche perché a loro vengono conferiti gli importi più consistenti. Ma gli «incentivi al raggiungimento degli obiettivi» sono una realtà consolidata che riguarda anche i manager e i quadri di rango inferiore.
«Il sistema del bonus va anche in senso verticale, arriva cioè a toccare anche il “middle management” (quadri medi, ndr) e quindi a incentivare il raggiungimento degli obiettivi più operativi di un’azienda – spiega Garzia – e quindi per correggere le distorsioni è ancora più importante lavorare in modo scalare, ovvero portando i correttivi anche ai ranghi inferiori del management».
Governo da rivedere
Quando in azienda le cose vanno male si è soliti accusare il management. Il primo a farlo è il Cda, ovvero l’organo di governo e sorveglianza che stabilisce anche gli obiettivi strategici dell’azienda. Secondo il professor Garzia, «devono essere opportunamente organizzati per valutare sistematicamente le performance del top management. Di norma nei Cda delle aziende quotate esiste un comitato per i compensi, costituito da consiglieri indipendenti, che ha l’obiettivo di valutare salari e bonus del C-level management. Ricordiamoci che il Cda è un organo di governo dell’azienda che non serve solo a ratificare le proposte o le decisioni del management».
A limitarsi, purtroppo, a ratificare le azioni del management sono però spesso gli azionisti durante l’assemblea ordinaria, per via del fenomeno della diluizione dell’azionariato che caratterizza soprattutto le grandi società. Gli azionisti di una società rappresentano diverse istanze. Per il professore Garzia «ci sono i grandi investitori finanziari, tipicamente i fondi d’investimento o fondi pensioni e i piccoli azionisti». «Il tema - continua - è complesso. Se un grosso azionista è un fondo d’investimento, è chiaro che il suo interesse è perseguire un obiettivo di crescita del valore delle azioni – un obiettivo che non è sempre di lungo periodo, purtroppo. Tuttavia, sia l’azionista istituzionale, sia quello privato, non è miope: nessuno vuole veramente andare contro la creazione di valore. Scaricare le responsabilità per il cattivo andamento di una società sugli azionisti quindi non è corretto. Piuttosto, come detto, il vertice – e mi riferisco al Cda – deve stabilire delle chiare regole di governo che vadano a trovare determinati profili manageriali che siano veramente indipendenti e “allineati” con gli obiettivi strategici della società».