Metalli preziosi

Da Mosca a Pechino, l'oro fra cronaca e geopolitica

Il mercato è in trasformazione e guarda sempre più a Est – Negli ultimi due anni i principali acquirenti di prodotto fisico sono stati Russia e Cina
©LUONG THAI LINH
Gian Luigi Trucco
11.04.2024 06:00

Il metallo giallo tocca progressivamente nuovi massimi e corre ben oltre i 2.300 dollari l’oncia, con una crescita del 14,7% da inizio anno. Va notato come la progressione sia avvenuta nel contesto di un dollaro USA abbastanza forte, sostenuto da tassi d’interesse relativamente elevati, eludendo quindi le tradizionali correlazioni inverse. Le ragioni del rally sono attribuite anzitutto alle tensioni geopolitiche in atto.

In realtà il mercato dell’oro è interessato anche da nuove tendenze. Dall’Africa vengono due fatti che, ancorché non tali da influenzarlo, sono degni di attenzione. Lo Zimbabwe è il primo Paese al mondo a lanciare una nuova valuta legata all’oro. Lo scopo è di stabilizzare l’economia e contenere l’inflazione. Si tratta, secondo quanto ha comunicato la banca centrale di Harare, di una «valuta strutturata», ZimbGold, il cui tasso di cambio verrà calcolato in base al valore del metallo e di un basket di valute di riserva.

Il Sahel «gold standard»

Un’iniziativa simile viene da Paesi del Sahel, Niger, Mali e Burkina Faso che, con un’iniziativa marcatamente anti-francese, hanno preso le distanze dalla Comunità Economica dell’Africa Occidentale (Ecowas) e dalla relativa unione monetaria, abbandonando il franco CFA legato all’euro. L’obiettivo è la creazione di una banca centrale comune, di un fondo di stabilizzazione finanziaria e di una banca d’investimento regionale alternativa all’attuale African Development Bank. Nascerebbero una valuta di riserva comune, pregiata in quanto legata all’oro, denominata Sahel e una valuta circolante, suo sottomultiplo, usata correntemente dalla popolazione. Il progetto ricalca quello annunciato in occasione degli ultimi summit BRICS «allargati», volto a rendere i Paesi membri sempre più indipendenti da istituzioni quali il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale, di fatto governate da Washington e dal potere della valuta statunitense, giudicato talvolta «strapotere», come quando usata nell’imposizione di sanzioni dirette ed indirette.

Uno scudo anti-inflazione

Ma sul rally dell’oro influiscono fattori che vanno al di là della cronaca e degli stessi scenari di rischio geopolitico. Per millenni il metallo prezioso è stato sinonimo di protezione, conservazione della ricchezza e in molti casi «denaro», direttamente o attraverso banconote garantite da esso. Nel 1971 tutto è cambiato con la fine della convertibilità decisa unilateralmente dagli Stati Uniti e le monete cartacee, la cosiddetta «fiat money», moneta fiducia, è finita con l’essere garantita dal nulla. Il Gold Standard veniva sostituito dal Dollar Standard, ancorché la sua base subiva continue erosioni e la stagione della stabilità valutaria tramontava. Nel contempo nasceva un «nuovo oro», frutto dei contratti future, senza alcuno scambio su base fisica e l’oro è diventato per gran parte uno strumento finanziario virtuale con un prezzo controllato dagli investitori istituzionali occidentali. Comunque il suo prezzo passava dai 35 dollari l’oncia del 1971, momento della rottura agli 850 dollari del 1980 e diventava, come affermava spesso Paul Volcker, presidente della Federal Reserve (Fed) «il nemico dei banchieri centrali», che, con l’eccezione di Alan Greenspan, mai hanno smesso di demonizzarlo come una reliquia del passato.

Dopo i future sono venuti innumerevoli strumenti finanziari a esso legati, seppur solo in maniera virtuale e oggi si stima, secondo una ricerca di Forbes, che esistano fra i 200 e i 300 trilioni di dollari di strumenti cartacei legati all’oro a fronte di 11 trilioni di metallo reale. Secondo altre istituzioni, quali Comex, la sproporzione è ancora maggiore. A muovere gli investitori istituzionali è soprattutto l’andamento dei tassi d’interesse e l’oro tradizionalmente è comprato quando i tassi scendono e viceversa. Negli ultimi 15 anni questa correlazione è stata abbastanza forte ma nel 2022, con i nuovi scenari geopolitici, qualcosa è cambiato. Anche quando la Fed ha alzato aggressivamente i tassi, l’oro non ha ceduto, a settembre 2022 il metallo saliva con i tassi stabili e fra l’ottobre 2022 e il 2023 la crescita è stata del 17%. Quello che accade ora è cronaca.

Cina e Russia fanno provviste

Nella nuova stagione gli investitori istituzionali occidentali sono risultati venditori netti di oro, come indicano i riscatti degli ETF a esso legati. Da inizio 2023 a febbraio 2023 le uscite dagli ETF ammontavano a 5,7 miliardi, di cui 4,7 dagli USA, mentre il prezzo dell’oro saliva toccando massimi storici.

Le ragioni sono duplici: i forti acquisti di oro fisico da parte delle banche centrali e dal settore privato della Cina (oltre 1.400 tonnellate nel 2023 e 228 tonnellate nel solo gennaio 2024). Secondo molti esperti, gli acquisti da parte delle banche centrali, soprattutto di Cina e Russia, sarebbero ampiamente superiori a quelle dichiarate. Secondo il World Gold Council gli acquisti avrebbero raggiunto nel 2022 il record storico delle 1.082 tonnellate e la stessa tendenza si sarebbe confermata nel 2023 e nella prima parte del 2024. Il trading fisico acquista dunque maggior peso rispetto a quello finanziario e l’acquisizione di oro non risponde soltanto al timore di sanzioni o congelamento di riserve valutarie, ma anche a quello del crescente debito USA, con il connesso abbassamento dei tassi e incremento dell’inflazione-svalutazione.

La weaponization del sistema finanziario occidentale va in parallelo con la spirale del debito USA e con una crescente sfiducia nel biglietto verde, segnando fra l’altro un non trascurabile trasferimento di ricchezza da Ovest verso Est, fenomeno di cui spesso pare non ci si accorga.

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