Dollaro debole e tassi in frenata: così l’oro torna a splendere

L'attuale fase di incertezza sui mercati, tra tassi in salita – ma con plausibili prospettive di frenata, se non addirittura una virata a 180 gradi della stretta monetaria delle banche centrali –, dollaro americano in fase calante e inflazione ancora relativamente sostenuta, fa sì che molti investitori si rivolgano ai classici bene di rifugio, in particolare l’oro.
Dall’inizio dell’anno la quotazione del metallo giallo è salita del 12% circa, toccando, ieri, il livello di 2.045 dollari l’oncia e puntando dritto a un nuovo picco, il terzo in tre anni, in zona 2.050 dollari l’oncia (il valore massimo storico è stato di 2.075 dollari l’oncia, raggiunto a inizio marzo 2022). Ma questa volta la tendenza al rialzo parrebbe essere più sostenuta, perlomeno nel lungo termine.
«L’oro era e resta l’unico vero bene rifugio a livello globale», afferma Mario Cribari, partner e responsabile della strategia di investimento di BlueStar Investment Managers a Lugano. «Ogni tanto spuntano strumenti nuovi, come ad esempio, in tempi recenti, le criptovalute. Ma poi i fatti hanno dimostrato che questi, ad oggi, non possono essere assimilabili all’oro quale vero bene di rifugio in quanto mancano totalmente di un quantificabile e serio valore intrinseco».
Correlazioni inverse
Il nostro interlocutore ci fornisce un’analisi su due livelli, quello di breve e di lungo termine. «Sul breve, le determinanti del prezzo dell’oro sono i tassi d’interesse e il valore del dollaro USA, data la correlazione che il metallo prezioso ha con essi», spiega Cribari. «In questa fase il prezzo dell’oro è salito perché il dollaro si è svalutato, un andamento al ribasso che perdura da fine settembre scorso quando la valuta americana aveva toccato i suoi massimi contro l’euro, andando sotto la parità a quota 0,95. Quest’anno, invece, il “greenback” si sta svalutando contro un po’ tutte le valute e questo depone a favore dell’oro perché c’è una correlazione inversa. I tassi d’interesse, dal canto loro, dopo il picco di inizio marzo sono tornati a scendere in maniera importante con le turbolenze sui mercati dovute allo shock dei fallimenti bancari negli USA e quello di Credit Suisse in Svizzera. Quando i tassi d’interesse scendono, l’oro sale perché, a differenza di azioni e obbligazioni, non “distribuisce” dividendi e non “paga” cedole, dunque, è in competizione con essi».
Quindi andremo a rivedere i picchi del 2021 e 2022 sopra quota 2.050 dollari l’oncia? «Sulla base del nostro scenario (nessuna recessione per il 2023 e nessun “pivot” delle banche centrali, per ora) è più probabile che nel breve ci sarà una moderata correzione, a meno che si verifichi un altro shock finanziario – che non credo avverrà – o un evento geopolitico inatteso, che sono però difficili da prevedere», commenta Cribari.
De-dollarizzazione e riserve
Del lungo e progressivo declino del dollaro USA abbiamo spesso parlato su queste pagine, un processo che è uno dei fattori che giocano a favore del metallo giallo. «Il processo di “de-dollarizzazione” dell’economia globale, benché molto più lento di quanto si pensasse, porta a considerazioni nel lungo termine che sono positive per il corso dell’oro», afferma Mario Cribari. «Gli Stati Uniti stanno combattendo questo rischio (per loro devastante) con ogni mezzo, incluse le guerre commerciali, l’aggressività geopolitica e i conflitti per procura. Molta della politica estera statunitense è infatti guidata dal tentativo di mantenere una supremazia economica e finanziaria che è garantita dal dollaro quale valuta di riferimento internazionale. Ma ci sono sempre più elementi che ci fanno pensare che questa supremazia stia venendo meno. Per esempio, un numero crescente di transazioni di materie prime viene regolato con altre valute rispetto al dollaro, come lo yuan cinese. Poi c’è il sistema dei pagamenti internazionali: dopo l’esclusione della Russia dal sistema Swift, alcuni Paesi hanno iniziato ad adottare dei sistemi alternativi, come il Cips (China International Payments System, ndr). Infine, ma non da ultimo, bisogna ricordare che le banche centrali, soprattutto quelle dei Paesi emergenti, stanno comprando oro in quantità massicce. Solo nei primi due mesi di quest’anno, sono stati acquistati 250 tonnellate d’oro dagli istituti d’emissioni di vari Paesi emergenti, il che rappresenta l’incremento annuale più elevato dal 2010. In altre parole, in due mesi si è comprato più oro che in ogni anno dal 2010 a oggi», conclude il gestore.
Newmont punta al primato globale
Newmont Corp. ha presentato questa settimana un’offerta finale per l’australiana Newcrest Mining Ltd, pari a 29,4 miliardi di dollari australiani (17,8 miliardi di franchi), per chiudere un accordo che renderebbe Newmont il maggiore produttore d’oro al mondo. L’offerta rappresenta l’inizio di un’importante ondata di consolidamento nel settore delle materie prime a livello globale, che include la mossa di BHP sulla rivale OZ Minerals e quella di Glencore sulla canadese Teck Resources. In caso di successo, sarebbe sarà la terza più grande operazione mai realizzata da un’azienda australiana e la terza più grande a livello globale nel 2023.