Fari puntati sull’effetto dei dazi per la crescita e per l’inflazione

I due fardelli principali per l’economia mondiale sono attualmente i dazi voluti dal presidente USA Trump e i contrasti in campo geopolitico, compresi i tragici versanti delle guerre. Occorre aggiungere un terzo fardello di rilievo, quello dei debiti pubblici elevati in molti Paesi, un fattore negativo che però si è venuto formando in anni non recenti e che dunque si trascina già da tempo. Puntiamo qui i fari sui dazi, non perché la geopolitica non sia pesante, anzi, ma semplicemente perché ciascuno dei fardelli è talmente ampio da richiedere trattazioni specifiche in sede di approfondimento.
Il Prodotto lordo
Molta attenzione ora è rivolta verso il 9 luglio, data di scadenza della sospensione di una serie di dazi decisi da Trump. Alcuni accordi commerciali, incluso uno con la Svizzera, sarebbero vicini alla definizione. Ma il condizionale è d’obbligo, visti i cambiamenti che caratterizzano l’azione del presidente USA, tra elogi e minacce. Se ci saranno queste intese, si potrà poi misurare meglio il peso delle nuove barriere, fatte in questo caso da dazi USA e da controdazi degli altri Paesi. Nel frattempo, vale la pena di vedere alcuni esempi di quanto è già in vigore mentre scriviamo.
Gli Stati Uniti hanno imposto per acciaio e alluminio dazi all’import del 50% tra gli altri a Cina, Unione europea, Giappone; l’accordo fatto con il Regno Unito prevede un 25%. Nel settore automobilistico i dazi USA sono del 50% per Cina, UE, Giappone e del 10% per il Regno Unito. I cosiddetti dazi reciproci, che valgono per gli altri prodotti, sono del 30% per la Cina e del 10% per l’UE, il Giappone e il Regno Unito. Calcolando anche che una parte dei Paesi colpiti ha risposto con controdazi, ce ne sarebbe già abbastanza. Il peso delle barriere diminuirà una volta definiti i nuovi accordi? Vedremo. Aspettando, bisogna ricordare che anche l’ipotesi per così dire migliore, quella di dazi complessivi attorno al 10%, sarebbe comunque un certo fardello per l’economia mondiale.
Sino a fine 2024 molte economie hanno mostrato resilienza, ma ora la linea di difesa si abbassa. Prendiamo le previsioni dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), che sono considerate da molti attendibili e che hanno il pregio di essere uscite all’inizio di giugno, poche settimane fa. Basandosi sui dati sino a quel momento disponibili, l’OCSE indica che la crescita del Prodotto interno lordo globale potrebbe fermarsi al 2,9% sia quest’anno sia il prossimo, contro il 3,3% del 2024. Quanto del rallentamento sarebbe dovuto alla geopolitica e quanto ai dazi? Difficile dire, ma è chiaro che i dazi, che quest’anno con Trump aumentano, concorrono in modo non secondario. Proprio gli Stati Uniti, promotori dei dazi, potrebbero essere tra i Paesi più in rallentamento, con una crescita dell’1,6% nel 2025 e dell’1,5% nel 2026, contro il 2,8% del 2024.
I commerci
D’altronde il volume dei commerci mondiali, che è la prima sponda di approdo per l’effetto negativo dei dazi, per l’OCSE dovrebbe crescere del 2,8% quest’anno e del 2,2% il prossimo, contro il 3,8% del 2024. Il colpo di freno già a questi livelli sarebbe consistente, se poi i dazi dovessero aumentare più del previsto evidentemente il rallentamento di commerci e crescita sarebbe più marcato. Il rimbalzo degli scambi economici dell’anno scorso potrebbe quindi registrare un non secondario ridimensionamento quest’anno e ancor più l’anno prossimo.
Uno dei timori maggiori è che al rallentamento economico non corrisponda, come dovrebbe essere negli schemi classici, un ulteriore contenimento dell’inflazione. Questo perché i dazi, come tutte le misure che accrescono il protezionismo, esercitano una pressione al rialzo sui prezzi. L’inflazione è stata in gran parte domata dopo le impennate del biennio 2022-2023 ma in molti casi non è stata ancora ricondotta al 2% di media annua, obiettivo delle principali banche centrali. La Svizzera punta allo 0%-2% ed è tra i pochi Paesi che hanno davvero sconfitto l’inflazione, che da noi infatti danza attorno allo 0%.
I prezzi
La media di inflazione annua per l’area OCSE, che raggruppa una quarantina di Paesi, dovrebbe essere quest’anno del 4,1%, contro il 5,1% dell’anno scorso, un miglioramento, che però sarebbe minore rispetto a quanto da molti pronosticato in precedenza. Gli Stati Uniti, che quest’anno hanno avuto anche un dollaro in netta caduta, nel 2025 dovrebbero registrare un’inflazione del 3,2%, in evidente peggioramento rispetto al 2,5% del 2024. L’Eurozona dovrebbe avere quest’anno un’inflazione del 2,2%, più bassa quindi del 2,4% dell’anno scorso, ma non ancora ricondotta a quel 2% che ora viene di fatto rimesso in discussione dall’onda USA dei dazi.
Lo scontro fra Trump e Federal Reserve e le implicazioni per economia e politica
Lo scontro tra l’Amministrazione Trump e il vertice della Federal Reserve, la banca centrale USA, è un ulteriore elemento di tensione in un quadro in cui già non mancano incertezze geopolitiche ed economiche. Il presidente Trump chiede in modo aggressivo tagli ai tassi di interesse di riferimento e ha messo nel mirino in particolare il presidente della Fed, Jerome Powell, attaccandolo anche a livello personale. Dietro questo scontro tutto americano ci sono questioni sia economiche, sia politiche, nel senso dei rapporti tra un governo e un istituto centrale in un contesto di democrazia.
I dati
Vediamo dapprima il versante economico, con l’indicazione in sintesi dell’attuale quadro statunitense. I tassi di riferimento sul dollaro sono alti (4,25-4,50 %) nel raffronto internazionale e una riduzione potrebbe dare un supporto in più alla crescita economica USA. Nel primo trimestre di quest’anno il Prodotto interno lordo americano ha subito una contrazione rispetto ai tre mesi precedenti; è probabile che in seguito la crescita sia tornata in territorio positivo. Le maggiori istituzioni economiche internazionali vedono ora il PIL statunitense nel 2025 con il segno più in una forbice 1,4-1,8%, in netto rallentamento rispetto al 2,8% del 2024. Dunque, pur essendo prevista ancora in crescita, l’economia USA sembra avere un passo più lento e non sarebbe male se avesse tassi di interesse più bassi. Di qui l’insistenza di Trump.
Dall’altra parte però Powell e il vertice Fed hanno parecchi argomenti per giustificare la loro cautela, che li ha portati sin qui a rinviare i tagli ai tassi. L’inflazione negli USA non è ancora tornata a quel 2% in media annua che è l’obiettivo della Fed. In maggio era al 2,4%, vicina alla soglia, ma la banca centrale deve tener conto di ciò che incombe: i dazi voluti da Trump possono esercitare una pressione al rialzo sui prezzi; inoltre l’attuale debolezza del dollaro facilita l’export ma rende ancor più caro l’import USA. La Fed non esclude tagli ai tassi più avanti, ma sin qui non li ha voluti fare perché teme una ripresa dell’inflazione e un eccessivo indebolimento del dollaro. Intanto l’OCSE prevede per gli USA un’inflazione media annua del 3,2% nel 2025, contro il 2,5% del 2024, dando così di fatto ragione alla Fed.
A ciò bisogna aggiungere altri due capitoli. Il mercato del lavoro americano è ancora a livelli soddisfacenti (quantomeno per gli standard USA) con una disoccupazione che in giugno è stata del 4,1%, migliore rispetto alle aspettative. Ciò contribuisce a far pensare che un supporto all’economia USA non sia così urgente. C’è poi l’ampia questione dei conti pubblici statunitensi, con un debito che era già a livelli elevati e che in prospettiva è destinato a salire, visti anche i tagli fiscali senza sufficienti compensazioni, approvati in Parlamento sotto la spinta di Trump. I conti pubblici non in ordine preoccupano la Fed anche per i riflessi sui titoli di Stato USA, sempre molto importanti ma oggi un po’ meno richiesti dagli investitori. I tagli ai tassi potrebbero accentuare il calo di attrattività.
I meccanismi
Il versante politico è pure rilevante. Le banche centrali devono poter agire in piena autonomia, altrimenti il rischio concreto è che siano sottomesse alle esigenze del governo di turno. Non è un caso che nei regimi autocratici capiti che gli istituti centrali vengano guidati da persone che non possono entrare in contrasto o anche solo in semplice divergenza con i vertici politici, se non esponendosi al rischio di essere allontanati dall’incarico, come già si è visto. Nelle democrazie la musica è diversa, l’autonomia della banca centrale non deve esser messa in discussione proprio perché è una garanzia per la politica monetaria e per la stabilità del sistema Paese in un quadro di regole valide per tutti. Da questo punto di vista l’attacco frontale del presidente Trump al vertice della Fed non è una buona notizia. La Fed sta resistendo, ma è sbagliato mettere in tensione i meccanismi democratici.