Gli USA vogliono imporre una tassa minima globale per le multinazionali

Il presidente americano Joe Biden vuole lanciare un piano di investimenti nelle infrastrutture da 2.250 miliardi di dollari. I finanziamenti necessari verrebbero raccolti grazie ad una maggiore tassazione delle aziende (l’aliquota federale dovrebbe passare dal 21% al 28%). Però sarebbe molto più facile far digerire l’amaro boccone se prima il resto del mondo diventasse meno attrattivo, così da ridurre l’incentivo per le aziende a insediarsi altrove. Ed ecco che la prima potenza mondiale scende in campo per eliminare la concorrenza fiscale internazionale, proponendo l’introduzione di una tassa minima globale per le filiali all’estero delle multinazionali. Inutile dirlo, le implicazioni economiche per diversi Paesi, inclusa la Svizzera, rischiano di essere pesanti.
«Le nostre entrate fiscali sono ai livelli più bassi di generazioni e se continueranno a scendere avremo meno soldi da investire in strade, ponti, banda larga e ricerca e sviluppo. Scegliendo di competere sulle tasse, abbiamo dimenticato i lavoratori e le nostre infrastrutture», ha argomentato il segretario al Tesoro USA Janet Yellen, in occasione del Chicago Council on Global Affairs qualche giorno fa. «Stiamo lavorando con i Paesi del G20 per un accordo su una tassa minima globale che possa fermare la corsa al ribasso - ha aggiunto - per entrare in una nuova e più intelligente forma di concorrenza», in cui «competeremo sull’abilità dei nostri lavoratori, sulla ricerca e sulle infrastrutture, e non più sull’avere aliquote più basse delle Bermuda o della Svizzera».
USA e l’OCSE
«Quella di Yellen non è un’idea nuova - ci spiega Peter Altenburger, giurista ed esperto di fiscalità internazionale -: gli USA in pratica hanno annunciato di aderire ad un progetto dell’OCSE, che già da tre anni sta lavorando ad una riforma fiscale globale formata da due pilastri fondamentali. Il primo è quello sulla tassazione dei servizi digitali, il secondo verte sulla tassa minima globale». La riforma lo scorso anno era stata varata da 137 Paesi (il gruppo informale del G-20). Tuttavia gli Stati Uniti di Donald Trump non avevano aderito, mentre la Svizzera è stata invitata quale ospite alle riunioni dei ministri delle Finanze.
I favori riscossi
Non solo il G-20 e l’FMI hanno accolto con favore le parole di Yellen. «Fiducioso» e «di fronte ad un’opportunità storica» si sono dichiarati il ministro delle Finanze tedesco Olaf Scholz e il suo omologo francese Bruno Le Maire. «Ma è chiaro - continua Altenburger -, Germania, Francia e anche Italia sono Paesi fiscalmente poco concorrenziali per le multinazionali e hanno tra l’altro un regime complicatissimo di tassazione per le affiliate straniere (CFC), che la Svizzera non ha». A schierarsi a favore è stato anche il fondatore di Amazon Jeff Bezos: infatti l’adesione degli USA al pilastro sulla tassazione minima dell’OCSE rende più improbabile l’implementazione del pilastro sulla tassazione dei servizi digitali.
Le conseguenze
I politici plaudono allo smantellamento della concorrenza fiscale, di cui dovrebbe beneficiare soprattutto l’erario, e ai risvolti protezionistici in termini di salvaguardia dei posti di lavoro in patria, ma è ancora difficile quantificare anche i risvolti e i costi per l’economia. «Sicuramente - commenta il capo economista di UBS Daniel Kalt - con l’amministrazione Biden la volontà degli Stati Uniti di introdurre un’aliquota minima globale per le società è aumentata. I Paesi che si sono indebitati in modo massiccio con la pandemia cercano di essere più efficaci nella tassazione aziendale. Da parte sua la Svizzera, che tradizionalmente ha un livello basso di debito e un regime fiscale favorevole alle aziende, tende ad essere uno dei Paesi perdenti in questo scenario». Non è ancora chiaro quale dovrebbe essere il tasso minimo da applicare, ma facilmente sarà più alto del 15% che oggi le aziende in Svizzera pagano mediamente in tasse. In effetti, a parte i paradisi fiscali, pochi Paesi al mondo hanno un regime più conveniente. La media dell’UE si situa al 20% e negli Stati Uniti al 27% (prima dei tagli fiscali di Donald Trump era il 40%). «Senza un’aliquota - prosegue Kalt - è difficile stimare costi o eventuali esodi delle imprese straniere dalla Confederazione. D’altra parte, spesso le aziende non sono in Svizzera solo per il contesto fiscale, ma anche per la presenza di lavoratori altamente qualificati e per le condizioni quadro molto stabili. Dovremmo quindi prestare ancora più attenzione a quei fattori di localizzazione che possiamo determinare noi stessi». Per il ministro delle Finanze Ueli Maurer, invece, senza girarci attorno il pacchetto potrebbe costare a Berna e ai cantoni almeno mezzo miliardo e fino a 5 miliardi di franchi in tasse perse.
Pochi dettagli anche in merito alle tempistiche. Durante la riunione dell’FMI ieri sera Maurer si è pure detto «aperto alla discussione», aggiungendo che «il calcolo di una tale tassa dovrebbe anche tenere conto delle tasse ambientali già elevate sulle aziende in Svizzera».
Il tempo stringe
«Con gli USA a bordo la riforma potrebbe già diventare realtà il prossimo anno -spiega Altenburger -. Da tener conto però che negli USA oltre alla proposta di Yellen si sta riflettendo su un altro piano, appena avanzato dal Senate Finance Comittee per alzare la Gilti Tax (la tassa sul reddito intangibile globale a bassa tassazione delle affiliate americane all’estero): un piano che però peggiora ancora di più la situazione fiscale delle aziende americane e della concorrenza internazionale».
Ma è possibile imporre un regime fiscale altrove? «Non è importante, quando alcuni attori pesano più di altri», commenta Altenburger. In effetti la Svizzera negli ultimi anni ha già dovuto accogliere diverse richieste OCSE per combattere la concorrenza fiscale. E soprattutto si ricorda bene cosa è successo quando dopo la crisi del 2008 i Paesi del G-20 capeggiati dagli USA hanno deciso di accelerare una riforma della finanza internazionale.