L'analisi

I dazi frenano già ora gli scambi ma il vero peso ci sarà nel 2026

L’Organizzazione mondiale del commercio cambia le previsioni: il rallentamento sarà contenuto quest’anno e forte il prossimo L’import fatto per anticipare le nuove tariffe degli USA adesso permette di limitare i danni, ma la gelata si sposta solamente di alcuni mesi
©SHAWN THEW / POOL
Lino Terlizzi
Lino Terlizzi
13.10.2025 06:00

Gli scambi globali stanno rallentando nell’anno in corso, ma sarà l’anno prossimo a portare il peso di un’ampia frenata. È quanto indica l’Organizzazione mondiale del commercio (OMC, la sigla in inglese è WTO), che ha pubblicato nei giorni scorsi le sue nuove previsioni. I commerci mondiali stavano già procedendo a velocità moderata, a causa del rallentamento della crescita economica internazionale, ma la botta viene ora dai dazi varati dal presidente USA Trump. Tra aprile e agosto di quest’anno Trump ha lanciato raffiche di dazi, interrotte da parziali retromarce e rinvii. In attesa dei dazi, molte importazioni negli Stati Uniti sono state anticipate, sostenendo così i volumi del 2025. Ma secondo l’OMC ciò sta solo rimandando la gelata, che con ogni probabilità ci sarà nel 2026.

Le cifre

L’Organizzazione mondiale del commercio, che ha sede a Ginevra, nel suo Global Trade Outlook fornisce dati e previsioni sul volume degli scambi globali di merci. Quest’anno questo volume dovrebbe crescere del 2,4%, mentre l’anno prossimo la crescita non dovrebbe andare oltre un contenuto 0,5%. Nell’agosto scorso l’OMC aveva previsto uno 0,9% per quest’anno e un 1,8% per il prossimo. Questo mese c’è stata quindi un’inversione nello schema delle previsioni dell’Organizzazione, con un 2025 a danno limitato e un 2026 invece ora a danno ampio. E questo appunto per via, in sostanza, dell’effetto ritardato dei dazi americani targati Trump.

Occorre ricordare che gli scambi mondiali di merci vengono da anni di scossoni, al termine dei quali però una tendenza alla ripresa si era sempre manifestata. Ora però c’è la complicazione del nuovo protezionismo USA. Nel 2020, anno dello scoppio della pandemia, il volume degli scambi di merci era sceso del 5,3% sull’anno precedente; nel 2021 c’era stato però un forte rimbalzo, pari al 9%. Nel 2022 la crescita dei commerci si era attestata al 2,2% e nel 2023 si erano fatti sentire maggiormente gli effetti dei conflitti bellici e dell’inflazione, con un -0,9%. Nel 2024, tuttavia, c’era stata una buona risalita, con un 2,8%. Se le cose andranno come l’OMC prevede, nel 2025 il rallentamento non sarà grande, mentre nel 2026 la frenata sarà più che consistente.

Le aree

La disaggregazione delle previsioni per aree geografiche conferma che il freno è innescato soprattutto dai dazi statunitensi. Il Nord America, dove gli USA sono preponderanti, per le merci dovrebbe registrare nell’import un calo del 4,9% quest’anno e del 5,8% il prossimo; nell’export la flessione nordamericana dovrebbe essere del 3,1% quest’anno e dell’1% il prossimo. L’Europa dovrebbe pure rallentare, senza però scendere sino al territorio negativo; nell’import il Vecchio continente dovrebbe salire del 2,4% nel 2025 e dello 0,8% nel 2026, nell’export rispettivamente dello 0,7% e del 2%. L’Asia dovrebbe essere un traino nell’import, con una crescita del 5,7% nel 2025 e del 2,7% nel 2026; nell’export il continente asiatico dovrebbe salire quest’anno del 5,3% e poi però stagnare l’anno prossimo.

L’OMC pubblica anche dati e previsioni sul volume dei commerci di servizi. Pur non essendo colpiti direttamente dai dazi, i servizi comunque risentono in una certa misura anch’essi dell’aumento dei dazi e dell’incremento del protezionismo più in generale. Minori scambi di merci influiscono negativamente ad esempio su trasporti e logistica, così come i prezzi maggiori dovuti ai dazi pesano sui consumi quotidiani di vari beni e sui movimenti legati al turismo. Secondo l’OMC il volume mondiale dell’export di servizi era salito del 6,8% sia nel 2023 sia nel 2024; nel 2025 dovrebbe invece salire non più del 4,6% e nel 2026 dovrebbe ulteriormente rallentare, con un aumento del 4,4%. Per aree geografiche, i rallentamenti maggiori sul versante dei commerci di servizi quest’anno e il prossimo dovrebbero venire dal Nord America e dall’Asia, mentre l’Europa dovrebbe registrare rallentamenti più contenuti.

La classifica

L’Organizzazione mondiale del commercio fornisce come sempre pure la classifica dei maggiori importatori ed esportatori, con valori come di consueto in dollari USA e in questo caso con riferimento all’anno 2024. I trenta Paesi presi in considerazione nella classifica dell’OMC rappresentano nel loro complesso l’83% circa degli scambi mondiali. Guardando al versante merci, si può vedere come tra gli importatori gli Stati Uniti siano al primo posto, seguiti da Cina, Germania, Regno Unito, Paesi Bassi; l’Italia è 12ma, la Svizzera è 21ma. Per quel che riguarda invece il lato degli esportatori di merci, al primo posto nella classifica c’è la Cina, seguita da Stati Uniti, Germania, Paesi Bassi, Giappone; l’Italia è 7ma, la Svizzera 17ma.

Negli Stati Uniti il quadro non migliora e le incertezze economiche rimangono

L’età dell’oro promessa da Trump agli USA per ora non si vede. Al contrario, si stanno registrando alcuni peggioramenti nel quadro economico statunitense. L’offensiva dei dazi voluta dal presidente americano sta creando problemi agli scambi e alla crescita economica mondiale e al tempo stesso non sta migliorando la situazione degli Stati Uniti. Ciò è verificabile andando a vedere i dati che riguardano alcuni capitoli fondamentali, come Prodotto interno lordo (PIL), disoccupazione, inflazione, debito pubblico.

I numeri

Cominciamo dal PIL, facendo una premessa. Il metodo di calcolo dell’andamento del PIL negli USA è diverso da quello adottato in molti altri Paesi, Svizzera inclusa, e dalle maggiori istituzioni economiche internazionali. Negli USA il tasso di crescita viene visto come annualizzato, ciò significa che la crescita registrata in ogni trimestre viene proiettata sull’intero anno per avere una stima della performance economica. Ne consegue che, ad esempio, gli USA dicono di aver avuto nel primo e secondo trimestre di quest’anno rispettivamente un -0,6% e un 3,8%. Ma i dati sono diversi se si usa il metodo di calcolo universale. Secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), la crescita USA è stata di -0,1% e di 0,8% trimestre su trimestre e di 2% e 2,1% su base annua, cioè rispetto agli stessi periodi del 2024.

Dunque secondo i criteri normalmente adottati l’economia USA sta rallentando, visto che nel primo e secondo trimestre dell’anno scorso cresceva su base annua rispettivamente del 2,9% e del 3%. La stessa OCSE d’altro canto indica (previsioni di fine settembre) che gli USA, dopo esser cresciuti del 2,8% nel 2024, cresceranno dell’1,8% nel 2025 e dell’1,5% nel 2026. Si tratta ancora di aumenti del PIL, certo, ma nettamente inferiori. Quanto al versante della disoccupazione, per ora pure non ci sono miglioramenti. Secondo gli ultimi dati disponibili (negli USA c’è lo shutdown, con interruzioni di servizi pubblici e ritardi anche per molti dati), il tasso di disoccupazione era al 4,3% in agosto, contro il 4% del gennaio di quest’anno.

La tendenza

L’inflazione nel frattempo è tornata a salire. Nel mese di agosto il rincaro è stato del 2,9%, contro il 2,3% di aprile. Per l’intero 2025, l’OCSE prevede per gli USA una media annua del 2,7%, contro il 2,5% del 2024; nel 2026, inoltre, la media dovrebbe salire al 3%. Gli aumenti del rincaro evidentemente non si legano a una maggiore crescita economica, con movimenti più intensi di merci e servizi, visto che secondo i dati universali negli Stati Uniti è in corso un rallentamento della crescita. Rallenta la crescita mondiale, ma rallenta anche specificamente la crescita USA. Gli indizi sono abbastanza chiari: è più che probabile che sul mercato interno americano i prezzi salgano perché cominciano a risentire degli ampi dazi all’import fissati da Trump.

I conti pubblici statunitensi dal canto loro non vanno bene. Secondo le stime dei mesi scorsi del Fondo monetario internazionale (FMI), il rapporto tra debito pubblico e PIL negli USA è tra il 120% e il 125%, un livello molto alto. Il deficit pubblico è pure elevato e l’idea che i dazi riscossi dalle casse americane possano eliminarlo non ha sufficiente fondamento, i ricavi da dazi molto difficilmente potranno coprire l’intero disavanzo federale. In queste settimane è subentrato l’ennesimo shutdown, cioè il blocco parziale delle attività statali, causato dal mancato accordo in Parlamento sul bilancio. Alla fine lo shutdown sarà superato, ma la coperta rimarrà stretta.

Deficit commerciale

In tutto questo, il tanto richiamato deficit commerciale (la cui riduzione viene posta da Trump alla base dei dazi) nei primi sette mesi del 2025 non è sceso. Si attendono i dati di agosto, che escono appunto con ritardo, ma sino a luglio compreso il disavanzo nei commerci (causato da import superiore all’export) era più alto rispetto a un anno prima: 654 miliardi di dollari contro 499 miliardi. Il dollaro debole facilita l’export USA ma, insieme ai dazi, rende intanto più caro un import che sinora è rimasto preponderante.

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