Il caso 1MBD approda in aula e parte con il piede sul freno
Era la prima giornata dibattimentale e per questo molto attesa. Si è però risolta in tre lunghi momenti in cui la Corte composta da tre giudici si è ritirata in camera di consiglio. Due le questioni da risolvere prima ancora della discussione vera e propria che si protrarrà fino al 30 di aprile con le considerazioni finali di accusa e difesa: la richiesta di ricusa del presidente della Corte David Bouverat e la domanda di dibattimento a porte chiuse fatta dalla difesa del principale accusato, Tarek Obaid. Respinta la prima, la richiesta è stata comunque trasmessa alla Corte dei reclami penali del Tribunale penale federale di Bellinzona. Fino a quando quest’ultima non si pronuncerà nel merito il giudice Bouverat condurrà il dibattimento. La seconda domanda - quella delle porte chiuse - è stata invece parzialmente accolta. L’accusato sostiene di essere stato per anni «ai piani alti» durante l’epoca di re Abdullah e di essere stato un consigliere della famiglia regnante saudita, ha spiegato il presidente del tribunale David Bouverat. Dopo la morte del re, sarebbe caduto in disgrazia, il che potrebbe mettere in pericolo la sua vita.
Da parte sua la procuratrice della Confederazione Alice de Chambrier ha respinto l’argomentazione secondo cui la vita del doppio cittadino svizzero-saudita sarebbe in pericolo. Ha sottolineato che il caso ha avuto un’ampia copertura mediatica e che le accuse, i fatti e i nomi sono di dominio pubblico e noti. «Se fosse stato minacciato, l’imputato non sarebbe stato visto questa mattina bere un caffè e a fumare una sigaretta su una terrazza di Bellinzona». Secondo il giudice, l’interesse alla pubblicità dei dibattimenti alla trasparenza escludono le porte chiuse complete. D’altro canto, i rischi estremi invocati dall’imputato, per sé e per le persone a lui vicine, impongono che egli possa parlare della sua situazione personale in assenza del pubblico. In particolare, il suo reddito e il suo patrimonio attuali non potranno essere rivelati.
L’accusa: truffa e riciclaggio
Ma torniamo al processo che in Ticino riporta alla mente la fine quasi improvvisa di BSI il 24 maggio del 2016. Ricordiamo che la Finma con una decisione fino ad allora senza precedenti decretò che quella che fu la Banca della Svizzera italiana, rimasta invischiata in una storia più grande di lei e con addentellati al vertice del governo malese, fosse integrata in EFG e sciolta. Oltre alla filiale ginevrina di BSI nel caso era coinvolto la sede di Singapore. Ma anche altre banche sono state toccate da quello che il Dipartimento di giusitizia statunitense definì «il più grande caso di cleptocrazia di tutti i tempi».
L’atto d’accusa è dettagliato e pesante. Ben 213 pagine ricche di riferimenti a fatti iniziati ormai quasi 15 anni fa, - nel settembre 2009 - ma divenuti di dominio pubblico solo nel 2015 con un’inchiesta giornalistica della piattaforma londinese Sawarak Report. Un sito fondato dalla giornalista britannica Clare Rewcastle Brown e che aveva riportato per la prima volta i dettagli di una truffa da 1,83 miliardi di dollari ai danni del fondo sovrano malese 1MDB. Basandosi su testimonianze di whistleblower, Sarawak Report aveva portato alla luce come due collaboratori chiave della società petrolifera PetroSaudi avrebbero messo in piedi una finta joint-venture attraverso la quale avrebbero sottratto quasi un miliardo di dollari dal fondo 1MDB che sta per 1 Malaysia Development Berhad. I due dirigenti in questione dopo un’indagine penale che è durata quasi un decennio sono comparsi davanti a una corte del Tribunale penale federale di Bellinzona. Si tratta di Tarek Obaid, cittadino saudita e svizzero e Patrick Mahony, cittadino svizzero e inglese. Nomi ampiamente noti nel panorama finanziario e del jet set internazionali.
Il Ministero pubblico della Confederazione rimprovera ai due imputati di avere messo in atto un piano volto a indurre il consiglio di amministrazione del fondo sovrano 1MDB a stipulare, nel settembre 2009, sulla base di informazioni presumibilmente false, un contratto di joint-venture con il gruppo petrolifero PetroSaudi, società di cui uno dei co-imputati era l’avente diritto economico e l’amministratore unico. Secondo il MPC (Ministero pubblico della Confederazione), gli accusati avrebbero agito di concerto con un investitore malese, allo scopo di arricchirsi. L’accordo prevedeva che, in cambio di una quota azionaria nella neonata joint-venture, 1MDB avrebbe immesso liquidità per un miliardo di dollari, mentre PetroSaudi avrebbe apportato degli attivi costituiti da giacimenti petroliferi in Turkmenistan e Argentina, per un valore di 2,7 miliardi di dollari; attivi che, in realtà, PetroSaudi non possedeva.
Stando ancora all’accusa, dopo la firma del contratto, 700 milioni liberati da 1MDB sarebbero stati trasferiti su un conto, aperto presso una banca in Svizzera, intestato a una società legata a all’investitore malese con cui gli imputati avrebbero agito. «Diverse decine di milioni di dollari sarebbero, poi, finiti nelle mani dei due accusati e della società PetroSaudi, senza servire gli interessi della joint-venture», si legge ancora.
Inoltre, il Ministero pubblico della Confederazione sostiene che i due imputati, successivamente e con le stesse modalità che hanno portato alla conclusione della joint-venture fraudolenta, «hanno ideato diversi piani volti a indurre sempre il consiglio di amministrazione di 1MDB ad autorizzare dei trasferimenti per un ammontare complessivo di 830 milioni di dollari, nel contesto di un prestito islamico successivo all’operazione di joint-venture. Questi fatti si sarebbero svolti tra il 2010 e il 2011». Anche questa somma sarebbe stata distratta ei proventi riciclati dai due.
Le accuse sono pesanti e vanno dalla truffa commessa per mestiere (art. 146 cpv. 1 e 2 CP), in via subordinata amministrazione infedele (art. 158 CP), al riciclaggio di denaro aggravato (art. 305bis n. 1 e 2 CP).