Il dilemma delle banche centrali nel quadro della guerra dei dazi

La guerra dei dazi voluta dal presidente USA Trump sta rompendo l’equilibrio a cui tendono le banche centrali. Queste cercano di favorire situazioni in cui possano convivere una buona crescita economica e un’inflazione bassa. L’andamento delle economie non sempre crea automaticamente l’equilibrio auspicabile, ad esempio ci può essere una forte crescita con inflazione alta, o una bassa crescita con deflazione eccessiva, o una bassa crescita con inflazione alta (questa è la dinamica innescata dai dazi USA). Gli istituti centrali devono intervenire per evitare che ci sia uno di questi quadri. Ma per farlo adeguatamente devono anche esserci i modi e i tempi giusti, mentre oggi la guerra dei dazi costringe a decisioni a stretto giro.
I tassi di interesse
Per molte banche centrali la decisione diventa di fatto un dilemma. Tra gli strumenti principali di intervento c’è quello dei tassi di interesse di riferimento. Alzando i tassi, si lotta contro l’inflazione ma non si supporta la crescita economica; abbassando i tassi, si supporta la crescita ma non si lotta contro l’inflazione. In tempi per così dire normali gli istituti di emissione cercano di guidare l’auto inclinando il volante un poco di qui e un poco di là, a seconda delle esigenze. In situazioni straordinarie invece sono costretti a forti sterzate, o di qui o di là insomma. Restando a questi ultimi anni, le banche centrali erano uscite con qualche fatica dalla lotta all’alta inflazione del post pandemia e stavano cercando di gestire i rallentamenti economici dovuti anche alle tensioni geopolitiche e ai conflitti bellici. Ma il fardello dei dazi USA, che rallenta la crescita e al tempo stesso alza i prezzi, scompagina le carte.
La Fed e le altre
La peggio messa per alcuni aspetti è la Federal Reserve, la banca centrale americana. Attaccata duramente da Trump, che vuole tassi più bassi per aiutare la crescita, la Fed aveva sin qui resistito, ma nei giorni scorsi ha tagliato i tassi guida di un quarto di punto, portandoli nella fascia 4%-4,25%. Ciò può supportare il Prodotto interno lordo (PIL) americano, che è comunque in rallentamento, ma non aiuta nella lotta contro il rincaro. L’obiettivo dei maggiori istituti centrali, Fed inclusa, è un’inflazione media annua del 2%, ma negli Stati Uniti quest’anno si è passati dal 2,3% di aprile al 2,9% di agosto. La Fed sta scegliendo, un po’ per forza e un po’ per amore, di aiutare la crescita USA con tagli ai tassi, ciò può servire per limitare il rallentamento del PIL ma fa aumentare il rischio di un’inflazione americana al 3% e forse oltre.
La Banca centrale europea è messa un po’ meglio rispetto alla Fed, perché aveva già tagliato i tassi guida sull’euro, che ora sono nella fascia 2%-2,40%, quando l’inflazione era chiaramente calata e si trattava di sostenere la crescita economica nell’Eurozona. Paradossalmente ma non troppo, proprio la scarsa crescita nell’area (inferiore a quella degli USA) ha favorito le mosse della BCE, che ha potuto operare su questo versante durante il calo del rincaro. L’inflazione nell’Eurozona quest’anno è scesa sino all’1,9% di maggio e poi nei tre mesi successivi è rimasta al 2%. Bisognerà vedere quanto l’andamento del PIL dell’area risentirà dei dazi americani e se e in che misura anche qui l’inflazione registrerà aumenti. La BCE è in una posizione di attesa, potrebbe riuscire nei prossimi mesi a tenere questa posizione ma potrebbe anch’essa essere costretta a uscire allo scoperto, scegliendo tra sostegno alla crescita o lotta all’inflazione.
La Banca d’Inghilterra dal canto suo è maggiormente sul filo, perché nel Regno Unito l’inflazione quest’anno è risalita dal 2,6% di marzo (indice CPI) sino al 3,8% di agosto; il tasso guida sulla sterlina è sceso solo sino al 4% e con il rincaro a questi livelli l’istituto britannico nei prossimi mesi potrebbe dover fare una scelta molto secca tra lotta all’inflazione e supporto alla crescita.
La Svizzera
La Banca nazionale svizzera è messa meglio di molti altri istituti centrali, ma qui ad avere un gran ruolo è la forza del franco. Tagliare i tassi significa anche frenare la propria valuta e il tasso guida elvetico è stato ridotto allo 0% perché l’inflazione è molto bassa (0,2% in agosto, ben dentro la fascia 0%-2% che è l’obiettivo della BNS), perché la crescita economica va sostenuta, ma poi appunto anche perché il franco è molto forte. Il super franco da un lato crea ostacoli all’export, dall’altro rende meno caro l’import. La BNS, che si pronuncerà il 25 settembre, dovrà decidere se scendere nei tassi negativi, che come si è già visto in passato creano problemi al settore finanziario e ai risparmiatori, o se invece non ridurre il tasso guida.