L'analisi

Il dilemma delle banche centrali nel quadro della guerra dei dazi

Il protezionismo voluto dal presidente USA Trump contribuisce sia al rallentamento della crescita sia all’incremento dei prezzi – Ora gli istituti di emissione in una serie di casi sono costretti a scegliere in tempi molto brevi tra il supporto al PIL e la lotta all’inflazione
©Luis M. Alvarez
Lino Terlizzi
Lino Terlizzi
21.09.2025 23:30

La guerra dei dazi voluta dal presidente USA Trump sta rompendo l’equilibrio a cui tendono le banche centrali. Queste cercano di favorire situazioni in cui possano convivere una buona crescita economica e un’inflazione bassa. L’andamento delle economie non sempre crea automaticamente l’equilibrio auspicabile, ad esempio ci può essere una forte crescita con inflazione alta, o una bassa crescita con deflazione eccessiva, o una bassa crescita con inflazione alta (questa è la dinamica innescata dai dazi USA). Gli istituti centrali devono intervenire per evitare che ci sia uno di questi quadri. Ma per farlo adeguatamente devono anche esserci i modi e i tempi giusti, mentre oggi la guerra dei dazi costringe a decisioni a stretto giro.

I tassi di interesse

Per molte banche centrali la decisione diventa di fatto un dilemma. Tra gli strumenti principali di intervento c’è quello dei tassi di interesse di riferimento. Alzando i tassi, si lotta contro l’inflazione ma non si supporta la crescita economica; abbassando i tassi, si supporta la crescita ma non si lotta contro l’inflazione. In tempi per così dire normali gli istituti di emissione cercano di guidare l’auto inclinando il volante un poco di qui e un poco di là, a seconda delle esigenze. In situazioni straordinarie invece sono costretti a forti sterzate, o di qui o di là insomma. Restando a questi ultimi anni, le banche centrali erano uscite con qualche fatica dalla lotta all’alta inflazione del post pandemia e stavano cercando di gestire i rallentamenti economici dovuti anche alle tensioni geopolitiche e ai conflitti bellici. Ma il fardello dei dazi USA, che rallenta la crescita e al tempo stesso alza i prezzi, scompagina le carte.

La Fed e le altre

La peggio messa per alcuni aspetti è la Federal Reserve, la banca centrale americana. Attaccata duramente da Trump, che vuole tassi più bassi per aiutare la crescita, la Fed aveva sin qui resistito, ma nei giorni scorsi ha tagliato i tassi guida di un quarto di punto, portandoli nella fascia 4%-4,25%. Ciò può supportare il Prodotto interno lordo (PIL) americano, che è comunque in rallentamento, ma non aiuta nella lotta contro il rincaro. L’obiettivo dei maggiori istituti centrali, Fed inclusa, è un’inflazione media annua del 2%, ma negli Stati Uniti quest’anno si è passati dal 2,3% di aprile al 2,9% di agosto. La Fed sta scegliendo, un po’ per forza e un po’ per amore, di aiutare la crescita USA con tagli ai tassi, ciò può servire per limitare il rallentamento del PIL ma fa aumentare il rischio di un’inflazione americana al 3% e forse oltre.

La Banca centrale europea è messa un po’ meglio rispetto alla Fed, perché aveva già tagliato i tassi guida sull’euro, che ora sono nella fascia 2%-2,40%, quando l’inflazione era chiaramente calata e si trattava di sostenere la crescita economica nell’Eurozona. Paradossalmente ma non troppo, proprio la scarsa crescita nell’area (inferiore a quella degli USA) ha favorito le mosse della BCE, che ha potuto operare su questo versante durante il calo del rincaro. L’inflazione nell’Eurozona quest’anno è scesa sino all’1,9% di maggio e poi nei tre mesi successivi è rimasta al 2%. Bisognerà vedere quanto l’andamento del PIL dell’area risentirà dei dazi americani e se e in che misura anche qui l’inflazione registrerà aumenti. La BCE è in una posizione di attesa, potrebbe riuscire nei prossimi mesi a tenere questa posizione ma potrebbe anch’essa essere costretta a uscire allo scoperto, scegliendo tra sostegno alla crescita o lotta all’inflazione.

La Banca d’Inghilterra dal canto suo è maggiormente sul filo, perché nel Regno Unito l’inflazione quest’anno è risalita dal 2,6% di marzo (indice CPI) sino al 3,8% di agosto; il tasso guida sulla sterlina è sceso solo sino al 4% e con il rincaro a questi livelli l’istituto britannico nei prossimi mesi potrebbe dover fare una scelta molto secca tra lotta all’inflazione e supporto alla crescita.

La Svizzera

La Banca nazionale svizzera è messa meglio di molti altri istituti centrali, ma qui ad avere un gran ruolo è la forza del franco. Tagliare i tassi significa anche frenare la propria valuta e il tasso guida elvetico è stato ridotto allo 0% perché l’inflazione è molto bassa (0,2% in agosto, ben dentro la fascia 0%-2% che è l’obiettivo della BNS), perché la crescita economica va sostenuta, ma poi appunto anche perché il franco è molto forte. Il super franco da un lato crea ostacoli all’export, dall’altro rende meno caro l’import. La BNS, che si pronuncerà il 25 settembre, dovrà decidere se scendere nei tassi negativi, che come si è già visto in passato creano problemi al settore finanziario e ai risparmiatori, o se invece non ridurre il tasso guida.

La forte discesa del dollaro USA

Il dollaro USA è sceso a livelli bassi e secondo molti analisti sarà difficile vederlo risalire in modo marcato nei prossimi mesi. Dietro la discesa del biglietto verde ci sono molti motivi. Questi i principali indicati dalla gran parte degli esperti: la grande incertezza creata dalla guerra dei dazi voluta dal presidente USA Trump, il passo più lento della crescita americana e i rischi di maggiore inflazione, il maxi debito e l’alto deficit accumulati nei conti pubblici statunitensi, il tentativo di dedollarizzazione degli scambi portato avanti da una serie di Paesi, tra i quali Cina, Russia, India, Brasile. Sono tutti motivi destinati probabilmente a non svanire nel breve-medio periodo, di qui il prevalere di una previsione su un dollaro che nei prossimi mesi non potrà andare alla riscossa. Si dice anche che a Trump vada bene il dollaro debole, perché aiuta le esportazioni americane; questo può esser vero, ma è altrettanto vero che le importazioni, già appesantite dai dazi, in questo modo diventano ancora più care per gli USA. Il dollaro resta la valuta principale negli scambi mondiali, ma la sua leadership oggi non è la stessa del passato. E il calo di valore non contribuisce a rafforzare la sua posizione. Nell’ultimo anno il biglietto verde è sceso rispetto a molte delle valute principali. Nei confronti dell’euro in dodici mesi mesi ha perso circa il 6% (ai valori di quest’ultimo venerdì). In rapporto alla sterlina britannica la discesa annua del dollaro USA è stata di circa il 2%. Nei confronti del franco svizzero, poi, l’arretramento del biglietto verde è stato nell’ultimo anno di circa il 7%. In campo valutario si tratta di percentuali non secondarie; inoltre, la caduta del dollaro è ancor più consistente se viene calcolata dall’inizio di quest’anno. Lo yen giapponese e lo yuan cinese sono tra le poche valute principali su cui la moneta USA non ha perso terreno su base annua. Nei giorni scorsi la Federal Reserve, la banca centrale statunitense, ha attuato un seppur contenuto taglio dei tassi di interesse di riferimento. Nel fare questo, la Fed ha probabilmente messo insieme due esigenze: attenuare la indebita pressione di Trump, che vuole tassi molto più bassi, sul vertice dell’istituto; aiutare la crescita economica americana, che comunque è in rallentamento. È possibile che le stesse ragioni portino ad altri tagli dei tassi USA entro la fine dell’anno, pur con il rischio di lasciar alzare l’inflazione. Abbassare i tassi significa peraltro anche rendere meno attrattiva la propria valuta, dunque il dollaro potrebbe anche su questo versante avere un supporto minore. L’euro dal canto suo viene visto da molti analisti come probabilmente stabile nei prossimi mesi, comunque non in discesa. La moneta unica europea ha dalla sua il fatto che l’Eurozona, pur crescendo in termini generali meno degli Stati Uniti, ha ora un rallentamento meno marcato e quest’anno potrebbe anche riuscire, almeno nella migliore delle ipotesi, ad avere un pur leggero aumento del grado di crescita. Inoltre, la Banca centrale europea ha già tagliato non poco i suoi tassi di riferimento, è dunque possibile che non effettui altri tagli nei prossimi mesi. Sulla sterlina gli esperti sono divisi: una parte la vede in indebolimento a causa soprattutto dei conti pubblici britannici in tensione; un’altra parte la vede invece stabile a buoni livelli, sull’onda di una certa tenuta della crescita nel Regno Unito. Quanto al franco svizzero, si tratta ormai solo di capire se sarà più o meno forte. È scontato che la valuta elvetica rimanga a livelli alti, bisognerà vedere quanto alti. La Banca nazionale svizzera cerca di frenare il franco, per supportare le esportazioni svizzere, ma il tasso di riferimento è già allo 0% e scendere ancora significa tornare ai controversi tassi negativi. L’altro strumento è l’acquisto di valute estere, ma il bilancio della BNS è già molto ampio. D’altro canto, la forza del franco rende meno caro l’import e valorizza la piazza finanziaria elvetica.
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