L'analisi

Il gigante cinese perde peso

La crescita economica di Pechino non è più impetuosa come negli anni scorsi - Per Bernardino Regazzoni, già ambasciatore svizzero in Cina, l’attuale leadership tende a concentrarsi sulla sicurezza interna declinata in vari modi
La corsa è più lenta e le priorità del terzo mandato di Xi Jinping puntano a evitare il dissenso. ©EPA/Jerôme Favre
Generoso Chiaradonna
17.01.2024 06:00

La prima economia manifatturiera al mondo sta attraversando un periodo congiunturale difficile: la crisi immobiliare è ancora irrisolta e probabilmente durerà anni, un elevato indebitamento delle entità locali e conseguenze post-COVID ancora non riassorbite. Fatto sta che la crescita stimata del PIL per il 2023 è tra le più basse degli ultimi anni. A questo si aggiungono i cambiamenti geopolitici in atto e l’acutizzarsi dello scontro con gli Stati Uniti. Cosa sta succedendo in Cina? Lo abbiamo chiesto a Bernardino Regazzoni, già ambasciatore svizzero a Pechino e a Tommaso Colli, managing director della filiale Fidinam di Shanghai.

«Il rallentamento dal punto di vista del PIL è una questione fisiologica. La Cina è considerata a torto un Paese in via di sviluppo, ma non è più così. Il terzo mandato del presidente Xi Jinping punta ora su una crescita interna e non più agli investimenti stranieri», spiega Tommaso Colli che precisa che il rallentamento era già percepibile nel 2019 prima dell’epidemia di Covid. «I costi per contenere le conseguenze sanitarie della pandemia sono state molto elevati. Si stima circa 230 miliardi di dollari. Il debito delle province, nel frattempo, è salito a undici mila miliardi di dollari che è una somma spropositata». Per uscire da questa situazione, suggerisce il manager di Fidinam, «l’apertura e l’iterazione con l’estero non possono essere abbandonate. In caso contrario il rischio è quello di incorrere in una situazione giapponese: la stagflazione, un periodo di bassa crescita e alta inflazione».

Occidente versus Oriente

Ma in Occidente, soprattutto negli Stati Uniti, si parla di decoupling, ovvero di separare le singole economie nazionali, almeno in determinati settori, da quella cinese. In Svizzera il Consiglio federale ha presentato lo scorso dicembre la bozza di messaggio per una legge sugli investimenti esteri che va proprio in quella direzione promossa dal consigliere nazionale de il Centro Beat Rieder. Secondo l’ambasciatore Regazzoni bisogna fare attenzione a semplificare in modo troppo netto. Regazzoni preferisce il termine de-risking a decoupling usato per la prima volta dalla presidente della Commissione UE Ursula von der Leyen. «In questo momento per il presidente Xi Jinping la priorità numero uno è la sicurezza e mentre l’accesso al mercato europeo è sostanzialmente garantito il percorso inverso – dall’estero alla Cina – è limitato», continua Regazzoni. «Ci sono 31 settori dove non è possibile investire dall’estero in Cina per legge. Il cosiddetto Comprehensive Agreement on Investment (CAI) è rimasto nel congelatore del Parlamento europeo e probabilmente ci resterà diversi anni ancora visto che i parlamentari che dovevano occuparsene sono stati messi sotto sanzioni cinesi». «Quell’accordo – continua – avrebbe creato molto più equilibrio nell’accesso al mercato cinese che invece oggi è asimmetrico. È inoltre in atto una competizione tra Stati Uniti e Cina avviatasi nel dicembre 2017 dopo il cambio di amministrazione da Obama a Trump. L’Amministrazione Biden attuale è una continuazione sul dossier cinese di quella precedente con una differenza: l’amministrazione passata - o forse futura - non è interessata a trovare alleanze».

In ogni caso, pur essendoci una forte implicazione nella creazione della catena di valore tra Occidente e Cina, ci sono settori molto delicati e sensibili anche per la sicurezza. «L’Information technology, le biotecnologie e le tecnologie verdi sono ambiti dove gli Stati Uniti escludono cooperazioni con la Cina». «Per quanto riguarda la Svizzera, la mozione Rieder prevede di introdurre, come fanno altri Paesi europei, uno screening sugli investimenti nei settori strategici. Non si menziona nessun Paese in particolare, ma l’amministrazione federale si riserva di verificare se sono strategici o no. Non è un approccio abituale in Svizzera, ma il Parlamento ha deciso così anche sulla spinta "emotiva" generatasi dopo l’acquisizione di Syngenta da parte di ChemChina nel 2017, probabilmente la più grande (40 miliardi di dollari) al di fuori dei confini cinesi».

Crisi immobiliare in atto

Regazzoni ricorda anche le difficoltà strutturali dell’economia cinese. «Il mercato immobiliare pesa per circa il 28% del PIL (il cui totale è di 17 mila miliardi di dollari l’anno) ed è la cassaforte del cinese medio, non dello speculatore». «È anche la prima fonte di introito per le comunità locali che mettono a disposizione il terreno che è un bene pubblico. Attualmente c’è uno squilibrio tra offerta e domanda pari a 60 milioni di appartamenti vuoti, in pratica la popolazione italiana, che permarrà a lungo nonostante lo Stato stia intervenendo per risarcire in parte i risparmiatori che hanno perso dei soldi». La mente corre al default di Evergrande. Il problema però resta nonostante i cerotti pubblici. «Non ci saranno casi Lehman, il governo cinese continuerà a riempire il vaso che è però bucato», commenta Regazzoni che ricorda come la Cina sia affetta dalla stessa malattia che ha colpito molti Paesi occidentali: il calo demografico, ampliato dalla politica del figlio unico.

«La disoccupazione giovanile è molto elevata nelle realtà urbane dove supera anche il 25% e questo in un Paese che sforna milioni di laureati ogni anno e che sta creando anche dei problemi sociali i quali, uniti all’invecchiamento della popolazione, pongono difficoltà di spesa pubblica crescenti tanto che si è creata una dicotomia tra generazioni: gli ultra cinquantenni che hanno fino a 10 fratelli e quelli al di sotto dei 50 anni che non ne hanno nemmeno uno», precisa invece Tommaso Colli. Nonostante ciò, la priorità del governo centrale è quella della sicurezza: sanitaria, sociale, da minacce esterne, eccetera e non la crescita economica.

Non disturbare chi comanda

E i venti della democrazia spireranno mai in Cina? Sia Regazzoni, sia Colli sono realisti. «Il patto sociale insito nel sistema cinese a partito unico è questo: io ti faccio stare meglio economicamente, ma tu non disturbi il partito comunista al comando». Cosa succederà se questo patto sociale dovesse rompersi? «È ancora molto presto per immaginare una democrazia in Cina come la intendiamo noi».

Lo scontro con gli Stati Uniti e la questione Taiwan

Negli anni scorsi si è parlato molto di un progetto infrastrutturale dal nome evocativo: la Via della Seta. Ultimamente è stato abbandonato dall’Italia, per esempio. Anche questo è una conseguenza di quello che potrebbe essere incluso nel concetto di de-risking. «La Via della Seta, avvantaggiava solo la Cina perché avrebbe dato una via più rapida per i suoi prodotti in Europa. Ora c’è una maggiore attenzione anche in Europa in settori strategici (energia ed automotive in senso più ampio)», afferma Tommaso Colli.

Se c’è un allontanamento tra Cina e Occidente, l’Africa è invece destinataria di molti investimenti cinesi con sullo sfondo l’alleanza di fatto con la Russia di Putin e la guerra in Ucraina. Per l’ambasciatore Regazzoni questo dimostra ancora una volta «che la competizione con l’Occidente si è trasferita altrove: nel continente africano e anche in Sudamerica». «La Cina è il primo partner commerciale di 112 Paesi al mondo». «Per rimanere all’Africa, i cinesi hanno sostituito di fatto le ex potenze coloniali con regole, per quanto riguarda la gestione del debito di questi Stati, che non sono quelle note del Club di Parigi. Per esempio, la famosa condizionalità occidentale – “prestito sì, ma ti impegni a fare riforme” – non è contemplata dalla Cina. Se l’assenza di condizioni a breve termine è vista come un bene dal debitore, a lungo termine non sappiano cosa accadrà». Sul conflitto russo-ucraino Regazzoni fa notare che la visita di Xi Jinping a Mosca dello scorso anno dice tutto: costituiamo un blocco antioccidentale. «Non ci sono però risultanze di aggiramento delle sanzioni occidentali via Cina», aggiunge Regazzoni che fa un accenno anche alla questione Taiwan, l’isola rivendicata dalla Cina popolare che potrebbe acuire lo scontro con gli Stati Uniti in caso di escalation militare. «Non so cosa accadrà, non ho la sfera di cristallo. Se però qualcuno continua a ripetere che farà qualcosa, tendo a pensare che prima o poi lo farà. I vertici cinesi si sono espressi pubblicamente in tante occasioni sulla “riunificazione” con Taiwan. Non è detto che ciò debba avvenire con uno scontro armato, le conseguenze anche solo di un blocco economico sarebbero però molto pesanti», conclude Regazzoni.