Il trono di Re dollaro resiste ma i Paesi emergenti premono

La crisi russo-ucraina, le conseguenti sanzioni, soprattutto la frammentazione economica e commerciale globale, con la costituzione di «cluster» (blocchi) omogenei per ispirazione geopolitica e ideologica, hanno riproposto il tema del dominio del dollaro USA. Un dominio esercitato da Washington sullo scacchiere finanziario internazionale da 80 anni, cioè dalla fine della Seconda guerra mondiale, ma che ora molti Paesi temono in quanto strumento di pressione strategica, oltre che economica e commerciale, al pari di quanto avvenuto nei confronti di Mosca. Da qui il loro tentativo di escludere, o quanto meno, diminuire la dipendenza dal biglietto verde.
Di fatto, il potere degli USA oggi poggia quasi esclusivamente sullo status del dollaro quale valuta globale, strumento di sanzioni e di pressione unilaterale. Al blocco delle riserve valutarie russe detenute all’estero (circa 300 miliardi di dollari), è seguita l’esclusione dal circuito interbancario Swift dei pagamenti internazionali, inducendo Russia e Cina a potenziare le loro infrastrutture finanziarie alternative, allargandole a nuovi intermediari e nuovi partner.
Meno riserve in dollari
Ma la tendenza alla de-dollarizzazione ha direttrici ben più vaste, come era già emerso del resto in occasione della riunione SCO (Shanghai Cooperation Organization) di Samarcanda dello scorso settembre. Coinvolge India, America Latina, Sudafrica, nazioni medio-orientali, del Golfo, dell’Asia centrale e sud-orientale, in parallelo con i BRICS. Diminuisce la quota in dollari nelle riserve delle banche centrali (dal 72% del 1999 al 59% attuale) e a livello globale i flussi commerciali della valuta cinese, lo yuan, stanno superando quelli in euro. La detronizzazione del dollaro USA non è dietro l’angolo, ma il processo è avviato e l’«incoronazione» avvenuta a Bretton Woods nel 1944 appare lontana.
L’ascesa dello yuan
Pechino è al centro del processo: ha abbassato la quota di US Treasury Bond detenuti a circa 870 miliardi di dollari (il livello più basso dal 2010) e ha fortemente incrementato l’uso dello yuan nelle transazioni commerciali estere, incluse quelle sul petrolio con Arabia Saudita e Iraq. Mosca, dal canto suo, ha accresciuto la quota di riserve in yuan e usa la valuta cinese in molte transazioni su gas e petrolio. L’uso del dirham saudita e della rupia cresce nelle transazioni con l’India.
Secondo molti osservatori l’unica valuta che può sostituire il dollaro USA a lungo termine è proprio lo yuan, ma il suo cammino verso la piena convertibilità è ancora lungo, più veloce sul versante commerciale, meno su quello squisitamente finanziario.
Inflazione e svalutazione
Ma vi è un altro aspetto, al di là di quello geopolitico e di struttura dei mercati. Oggi il dollaro sembra relativamente forte, sostenuto dai tassi elevati decisi dalla Federal Reserve per contrastare l’inflazione, ma i dati raccontano un’altra storia. In realtà nessuna valuta cartacea è intrinsecamente «forte», visto che il suo valore non è sostenuto da alcunchè, se non dalla fiducia nell’accettazione da parte di una controparte. E il biglietto verde lo è ancora meno di altre. Dal 1933 ha perso il 92% del suo valore. Venendo a periodi più vicini, solo nel 1981 ha perso due terzi del suo potere d’acquisto a causa della stagflazione. Dal 1994 a oggi si è svalutato del 74% nei confronti del franco svizzero e del 76% verso lo yen giapponese. Inflazione e svalutazione monetaria non sono fenomeni naturali. Hanno diverse cause e la principale, nel caso del dollaro, è stata la continua creazione di moneta che la Fed, in gran parte su richiesta del Governo, ha creato dal nulla, stampando carta: 20 miliardi erano in circolazione nel 1933, 200 miliardi nel 1969, 400 miliardi nel 1980, oltre 1,2 trilioni oggi.
Mercati emergenti in crescita
Alla luce dell’esplosione della massa monetaria e dell’indebitamento, che per Washington ha raggiunto livelli stratosferici, il trono del dollaro USA non vacilla ancora, ma sul suo futuro le ipoteche crescono. Un trend favorito dal ruolo crescente dei mercati emergenti, che ormai concorrono al PIL globale in misura maggiore di quelli «evoluti» e per lo spostamento della ricchezza e della sua creazione verso nuove aree mondiali non sempre benevole nei confronti dell’unilateralismo americano.
Scambi in renmimbi raddoppiati in un anno
Stando alla piattaforma internazionale di pagamenti Swift, la quota del renminbi nel mercato è salita da meno del 2% nel febbraio dell’anno scorso al 4,5% di oggi. Questi guadagni mettono la valuta cinese in stretta competizione con l’euro, che rappresenta il 6% del totale. Lo rivela un’analisi del Financial Times, secondo cui l’impennata riflette sia un maggiore utilizzo della valuta cinese negli scambi con la Russia, sia l’aumento del costo del finanziamento in dollari. Euro e renminbi, tuttavia, sono ancora una piccola frazione della quota del dollaro, che a febbraio era dell'84%, in calo rispetto all'86,8% dell'anno precedente.