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«In Cina opportunità notevoli anche in campo finanziario»

L’intervista a Federico Foglia, azionista della luganese Banca del Ceresio - Gli abbiamo posto alcune domande sulla realtà economica e finanziaria del gigante asiatico
©REUTERS/ALY SONG
Lino Terlizzi
Lino Terlizzi
08.03.2021 06:00

Focus Economia di questa settimana è dedicato all’intervista a Federico Foglia, azionista della luganese Banca del Ceresio. Gli abbiamo posto alcune domande sulla realtà economica e finanziaria della Cina di oggi e sulle possibili prospettive del gigante asiatico.

Cosa rappresenta oggi la Cina, in termini economici complessivi?

«Oggi la Cina da sola rappresenta il 20% del PIL del mondo e il 20% della sua popolazione. Nel 2019 ha contribuito alla crescita mondiale per il 28% e lo scorso anno è stata una delle pochissime aree a registrare crescita economica. Nonostante questi dati, la Cina resta fortemente sottorappresentata negli indici dei mercati finanziari più utilizzati: ad esempio conta solo per il 5,5% dell’indice MSCI Global All Countries. Eppure oggi ci sono più società quotate in Cina (circa 5.400) che negli Stati Uniti (circa 4.300) e la capitalizzazione complessiva della Borsa cinese conta ormai di fatto per il 15% di quella mondiale. Chi si occupa di gestire risparmi si trova pertanto confrontato con opportunità potenzialmente notevoli, costellate però di numerosi rischi».

Vediamo dunque il versante dei rischi, quali sono i principali?

«La Cina non è una democrazia, non è uno Stato di diritto, applica regolarmente la censura, si macchia costantemente di violazioni dei diritti umani (dai fatti recenti di Hong Kong alla repressione degli Uiguri) e, dall’ascesa al potere di Xi Jinping, ha anche aumentato le proprie mire espansionistiche militari, come dimostrato anche dalle recentissime esercitazioni cinesi che hanno violato il territorio di Taiwan. La storia insegna che, affinché i risparmi siano ben custoditi, è necessario investire in Paesi in cui c’è una seria tutela dei diritti, come pure pace e stabilità sociale. Non basta la crescita economica. Le dittature, alla lunga, garantiscono minor stabilità sociale e meno Stato di diritto rispetto alle democrazie. Forse, con buon senso, dovremmo fermarci qui: dimentichiamoci di investire risparmi in Cina».

E invece, lei dice, ci sono molti elementi da considerare anche sul versante delle opportunità. Quali sono le maggiori?

«Non si possono dimenticare alcuni fatti importanti. Deng Xiaoping, che probabilmente verrà ricordato come uno dei più validi politici del secolo passato, dalla fine degli anni ‘70 ha messo in moto un processo di generazione di ricchezza mai visto prima nella storia del mondo. In soli 30 anni almeno mezzo miliardo di individui sono passati da uno stato di estrema povertà a quello di ‘classe media’. L’establishment politico cinese ha ottenuto risultati economici e sociali mai visti prima sul pianeta. Sappiamo bene dalla storia russa o dell’Europa dell’Est che il passaggio da un’economia comunista al libero mercato è una transizione alquanto delicata».

Resta però il fatto che in Cina c’è un partito unico e che ciò ha un peso anche sull’economia del Paese...

«Certo in Cina esiste un partito unico, ma è anche vero che questo conta più di 80 milioni di dirigenti, c’è dunque anche una forma di lotta politica interna continua. Non tutti sostengono le derive più dirigiste di Xi Jinping, che nel novembre del 2018 ha dovuto fare importanti passi indietro rispetto ad alcune dichiarazioni precedenti, non favorevoli all’economia di mercato. In Cina esiste un potere politico assolutistico e centralizzato che curiosamente si contrappone ad un dinamismo di mercato molto concorrenziale. Non è un caso che vi siano nati imprenditori privati di grande successo, molto giovani: i fondatori di Kuaishou, ByteDance e Pindoudou, tre fra le nuove maggiori aziende in campo digitale, hanno fra i 36 ed i 38 anni. E sono già plurimiliardari».

Jack Ma, fondatore del gruppo di commercio elettronico Alibaba, è scomparso dalla scena per diversi mesi, dopo aver rivolto alcune critiche alle autorità. Poi è riapparso, ma non restano appunto i rischi di sempre per chi critica?

«Il sistema cinese non è democratico, quindi come detto i rischi esistono, anche per chi è miliardario. Nel caso specifico Jack Ma ha pubblicamente sollevato critiche pesanti alle principali banche cinesi (controllate dallo Stato) e alle autorità di regolamentazione finanziaria. Alcuni nostri contatti cinesi suggeriscono che questa vicenda si potrebbe prestare ad un’altra considerazione: se Jack Ma ha deciso di parlare in quel modo, ciò può anche significare che Xi Jinping non è poi così assolutamente forte, al contrario di quanto affermano molti. Esiste anche una fazione politica che appoggia Ma che per ora è perdente».

In che modo il potere politico cinese guarda al lungo termine, per quel che concerne l’economia?

«Per contenere gli effetti dell’attuale crisi economica, le autorità americane ed europee sono intervenute in modo aggressivo con politiche monetarie colossali e politiche fiscali consistenti. Hanno sostanzialmente deciso di prendere a prestito denaro dalle generazioni future. Più prudente è stato il comportamento delle autorità cinesi che, per il momento, sono intervenute molto meno, ipotecando meno il proprio futuro. Da decenni la leadership politica cinese si pone obiettivi strategici di lungo periodo. È quasi sempre riuscita a raggiungerli. L’obiettivo dichiarato oggi è quello di spingere lo sviluppo del mercato interno e la crescita dei consumi piuttosto che le esportazioni o gli investimenti infrastrutturali».

Per quel che riguarda il campo più direttamente finanziario, qual è la linea di Pechino?

«La Cina necessita di un mercato finanziario aperto, maturo ed efficiente. Per almeno tre motivi. Anzitutto, quando l’economia cresceva a doppia cifra la corretta allocazione delle risorse era meno rilevante: gli errori col tempo si diluivano; in un contesto futuro di crescita più moderata le autorità sanno bene che il mercato è il sistema più efficace. Poi, negli ultimi 20 anni la parte più importante dei risparmi (i cinesi sono assidui risparmiatori) si è riversata sul settore immobiliare, che è stato vittima di bolle speculative e crolli; le autorità vogliono incanalare almeno parte di questi risparmi verso i mercati finanziari. Infine, con un’economia votata all’export ed una bilancia commerciale molto positiva, i cinesi hanno per anni esportato capitali in tutto il mondo; in futuro, con la crescita dei consumi locali, si stima che debbano cominciare ad importare capitali dall’estero, hanno bisogno quindi di mercati finanziari aperti e capaci di attirare denaro estero».

Cosa succede in Cina nel capitolo specifico della gestione del risparmio?

«Negli ultimi 20 anni si è sviluppata in Cina un’industria della gestione del risparmio indipendente di successo, che ha saputo generare per i propri clienti risultati notevoli. Il 60% delle aziende quotate in Cina non sono seguite da analisti finanziari (rispetto all’8% negli USA) e solo il 20% delle transazioni giornaliere sono generate da investitori istituzionali e professionali. Un mercato ancora inefficiente, insomma, alle prime armi, che offre molte opportunità per chi le sa cogliere. A noi pare ragionevole affidarsi ad alcuni di questi professionisti locali emergenti per parte dei propri risparmi. Soprattutto se questi professionisti hanno saputo in passato dimostrare un sano senso critico, anche nei confronti del proprio Paese».

Non c’è da temere una spirale nel confronto-scontro tra Cina e Occidente, in particolare tra Pechino e Washington?

«Lo stratega americano William Overholt osserva che, dalla fine della Seconda guerra mondiale, le potenze si scontrano molto più sul terreno della crescita economica che su quello delle strategie militari. Si tratta di una evoluzione storica importante, perché la guerra è nella migliore delle ipotesi un gioco a somma zero: c’è un vincitore e c’è un perdente. Così non è in una battaglia di crescita economica: David Ricardo dimostrava già 200 anni fa che tutte le parti possono uscirne vincenti. La Cina, per il momento, si è lanciata in una battaglia di crescita economica: una sfida che potrebbe portare benessere anche a noi. A patto di trovare regole minime comuni condivise».

Riflettori accesi sul Dragone e sulle sue cifre

Il coronavirus è scoppiato in Cina prima che altrove, ma la stessa Cina ha in seguito riguadagnato abbastanza rapidamente terreno sul piano economico. Quella del Dragone cinese è infatti l’unica tra le maggiori economie ad aver chiuso il 2020 con il segno positivo. L’anno passato c’è stato un +2,3% per il Prodotto interno lordo cinese, secondo i dati ripresi nel gennaio scorso dal Fondo monetario internazionale. Si tratta di un aumento del PIL inferiore alla media cinese, ma l’FMI prevede ora per la Cina un forte rimbalzo, con una crescita economica pari all’8,1% nel 2021 e al 5,6% nel 2022. Il Governo cinese dal canto suo ha reso noto in questi giorni il suo obiettivo per quest’anno, che è un incremento del Prodotto interno lordo «di oltre il 6%», in un contesto inflattivo «intorno al 3%». I piani del Governo di Pechino, che è guidato dal primo ministro Li Keqiang, di fatto il numero due in Cina alle spalle del presidente Xi Jinping, comprendono anche la creazione di più di 11 milioni di posti di lavoro nelle aree urbane, dove la disoccupazione è stimata attorno al 5,5%.