La lenta transizione globale dagli Stati Uniti alla Cina

Negli ultimi tempi l’attenzione di Wall Street si è concentrata sull’avvicendamento alla testa della Federal Reserve americana. Le nuove nomine promosse dal presidente Trump, orientate verso figure percepite come più allineate alla sua visione economica, hanno riaperto un interrogativo che si riteneva superato: l’indipendenza della banca centrale statunitense è ancora garantita, oppure sta diventando una funzione politica? L’ipotesi che la Fed possa essere influenzata dall’agenda dell’Esecutivo inquieta i mercati, perché un dollaro guidato da obiettivi politici e non da criteri tecnici indebolirebbe il suo ruolo globale.
Questa possibile torsione istituzionale, però, non è un episodio isolato. Si inserisce in un clima più vasto di fragilità politica, non solo americana. In gran parte dell’Occidente, infatti, le élite politiche appaiono meno solide proprio in un’epoca in cui i problemi richiedono visione e continuità.
Al contrario, la Cina rappresenta l’eccezione: l’unica grande potenza ad aver mantenuto un’élite dirigente compatta, selezionata con rigore e orientata al lungo periodo, capace di aggiornare continuamente i propri obiettivi senza perdere coerenza strategica.
Per capire perché questo divario politico oggi pesi così tanto, bisogna tornare al nodo economico che ha segnato la posizione americana negli ultimi quarant’anni: la grande delocalizzazione industriale. A partire dagli anni Ottanta e accelerando nei decenni successivi, più di cinquantamila stabilimenti americani hanno trasferito capacità produttiva, ricerca applicata e competenze ingegneristiche sparse in tutta l’Asia, in particolare in Cina.
Questo spostamento non è stato un incidente ma la scelta deliberata delle élite economiche dell’epoca, convinte che un’economia basata sul consumo e sulla finanza fosse più moderna e più redditizia rispetto a una basata sulla manifattura. Ma nel tempo questo processo ha eroso la base industriale nazionale fino a renderla insufficiente rispetto al fabbisogno interno.
Da qui nasce il cosiddetto «tris deficitario» americano: deficit commerciale, deficit fiscale e deficit di risparmio. Gli Stati Uniti importano stabilmente più beni di quanti ne esportino, spendono stabilmente più di quanto incassino e risparmiano meno di quanto sarebbe necessario per sostenere il loro debito. È un modello che può funzionare solo perché il dollaro continua a essere la valuta di riferimento globale, accettata in ogni transazione e detenuta come riserva da quasi tutte le banche centrali del mondo. Ma è un equilibrio fragile, perché obbliga gli Stati Uniti a ricorrere a un’emissione costante di debito, spesso a ritmi superiori alla crescita economica, alimentando una spirale nella quale il passato finanziario pesa più del presente produttivo. Oggi, infatti, gli interessi sul debito federale hanno superato la spesa per la Difesa, un evento simbolico e allo stesso tempo sostanziale: gli Stati Uniti dedicano più risorse alla gestione del debito accumulato che alla sicurezza nazionale.
In questo clima, la politica economica del presidente Trump si presenta come una reazione immediata e combattiva a un problema che richiederebbe tempo e profondità di intervento. La svalutazione del dollaro, le tariffe generalizzate sulle importazioni, la riduzione delle tasse e i tentativi di riportare industria in patria nascono dalla volontà di contrastare l’ascesa cinese.
Svalutare il dollaro significa indebolire il principale vantaggio geoeconomico degli Stati Uniti; imporre tariffe significa aumentare i prezzi interni e alimentare inflazione; tagliare le tasse senza ridurre la spesa pubblica significa allargare ulteriormente il deficit; tentare di ricostruire la manifattura interna richiede tempi lunghi, investimenti giganteschi e un capitale umano che oggi non esiste più nella sua dimensione storica.
Per comprendere la forza della Cina e il motivo per cui domina il commercio mondiale e i settori tecnologici emergenti, occorre osservare la sua traiettoria. La Cina è cresciuta attraverso una combinazione unica di protezionismo intelligente, controllo dei movimenti di capitale e gestione rigorosa della valuta. Per decenni ha imposto barriere all’ingresso dei prodotti stranieri, obbligando le aziende estere a trasferire tecnologia per poter operare nel suo mercato. Al tempo stesso ha impedito fughe di capitale, ha mantenuto il renminbi sotto stretto controllo – con una sottovalutazione stimata dagli americani intorno al 15-20% – e ha diretto il credito verso infrastrutture, industria e innovazione. È grazie a questa disciplina che la Cina è oggi il primo esportatore mondiale di beni e un attore dominante in settori come batterie, auto elettriche, telecomunicazioni, energia solare e logistica. L’impatto di questa trasformazione non riguarda soltanto gli Stati Uniti. Nel 2025 persino la Germania, cuore industriale dell’Unione europea, ha registrato per la prima volta un deficit commerciale con la Cina. È un segnale che pesa più di tanti discorsi: significa che la Cina non è più soltanto la fabbrica del mondo a basso costo, ma un concorrente diretto anche nei prodotti ad alto valore aggiunto. E mostra, al tempo stesso, la difficoltà delle élite europee nel proteggere e rinnovare la base produttiva del continente.
La competizione tecnologica
Tutti questi elementi – la possibile politicizzazione della Fed, la debolezza delle élite occidentali, la deindustrializzazione americana, il triple deficit, le politiche valutarie aggressive, la strategia industriale cinese, il deficit primario cronico degli Stati Uniti e il sorpasso commerciale della Cina anche nei confronti della Germania – appartengono allo stesso quadro: un Occidente che ha vissuto per decenni basandosi sulla finanza e sulla promessa di un futuro sempre migliore e una Cina che ha costruito, in silenzio, un’economia reale capace di competere su ogni fronte. La globalizzazione che conoscevamo non tornerà nella sua forma precedente. Giudice in questo periodo sarà la sfida tecnologica, la grande scommessa strategica di Trump attraverso gli enormi investimenti, in parte a debito, assunti in forma circolare e garantiti da OpenAI e dalle big tech, nell’intento di recuperare il primato americano quale leader del mondo.