La tentazione delle stablecoin per «ridollarizzare» il mondo

L’allarme è stato lanciato da tempo e da più parti: una Federal Reserve indebolita con nomine «politiche» metterebbe a rischio la fiducia nella banca centrale e renderebbe meno attraenti i titoli di Stato denominati in dollari. Togliamo pure il condizionale: la sfiducia dei mercati è già espressa, basta guardare il balzo del rendimento medio dei 30-year Treasury, che in questi giorni è salito al 5%. Gli investitori temono, infatti, che il Governo di Washington possa essere costretto a rimborsare il denaro incassato finora coi dazi di Trump (a partire dal Liberation Day si parla di oltre 100 miliardi di dollari, mentre le stime puntano a una cifra attorno ai 200 miliardi per l’anno in corso), aggravando la già difficile situazione fiscale e debitoria degli Stati Uniti. Situazione che costa quasi mille miliardi di dollari all’anno di soli interessi sul debito pubblico e che, con la maxi manovra da tremila miliardi approvata agli inizi di luglio (la famosa One Big Beautiful Bill), appare sempre più complicato da risanare. Come fare, quindi, per mantenere la promessa elettorale di ridurre il debito pubblico USA?
Far crescere il mercato dei bond
Svalutare il dollaro è un’opzione, ma non basterebbe. Mantenere fluido il mercato dei Treasury è un’altra possibilità. Ed ecco che appare più chiaro il significato della recente approvazione da parte del Congresso USA di ben tre leggi favorevoli allo sviluppo delle valute digitali, nello specifico quelle ancorate al dollaro: le stablecoin. Le norme stabilite da Washington impongono infatti alle società che emettono queste criptovalute che ogni token digitale debba essere interamente garantito da un bene sicuro e liquido, come appunto i Treasury (quelli con scadenze brevi fino a due anni sono iper-liquidi e considerati alla stregua del contante).
Tether, attualmente il maggiore emittente di stablecoin al mondo con oltre 160 miliardi di token creati finora detiene Treasury per un valore di circa 127 miliardi di dollari – più di quelli che detiene la Germania e quasi quanti ne detiene l’Arabia Saudita. «Se l’obiettivo del governo americano è quello di “ridollarizzare” il mondo, visto il costante calo del ricorso al greenback quale valuta di riserve e/o per le transazioni commerciali – si pensi al commercio del petrolio che sempre più si effettua in altre valute – attualmente l’unico modo per farlo è diffondendo le stablecoin, partendo dai Paesi più poveri “affamati” di moneta che non si svaluta costantemente per gli effetti dell’alta inflazione con cui molti di essi sono confrontate», osserva Michele Ficara Manganelli, direttore esecutivo dello Swiss Blockchain Consortium a Lugano. «È tutto denaro fresco per le casse del Tesoro statunitense – aggiunge – “raccolto” però da entità private, come Tether, Circle e altri, senza particolare sforzo da parte del Tesoro. Una geniale furbizia dell’amministrazione Trump, oltre che un win-win per Stato e le società che emettono le stablecoin», aggiunge.
Rischio «corsa agli sportelli»
Alcuni esperti avvertono che la diffusione incontrollata delle stablecoin potrebbe costringere i governi a costosi salvataggi in caso di crisi. L’economista francese e Premio Nobel Jean Tirole ha dichiarato al «Financial Times» (FT) di essere «molto, molto preoccupato» per la supervisione di questi asset e per il rischio di una «corsa agli sportelli» se venissero messi in dubbio i titoli sottostanti, come i Treasury. Secondo il professore della Toulouse School of Economics, le stablecoin, pur percepite dagli utenti retail come «depositi perfettamente sicuri», potrebbero generare perdite e spingere i governi a intervenire.
L’economista sottolinea che la pratica di garantire le stablecoin con titoli di Stato statunitensi potrebbe diventare impopolare a causa dei rendimenti relativamente bassi di questi attivi, citando casi precedenti in cui i rendimenti dei Treasury sono stati «negativi per diversi anni» (al netto dell’inflazione). Gli emittenti di queste criptovalute ancorate a quelle fiat potrebbero quindi essere “tentati” di investire in attività diverse che «offrono rendimenti più elevati ma più rischiose», sostiene Tirole. A questo proposito, va detto che le riserve di Tether sono costituite anche da beni quali contanti, oro e… altri criptoasset, come Bitcoin.
Rischi più elevati aumentano la probabilità che si verifichi uno scenario in cui gli attivi a garanzia di una stablecoin perdano valore, innescando una fuga da quei beni, ha sostenuto Tirole a margine di un incontro dei premi Nobel a Lindau, in Germania, la scorsa settimana, riferisce ancora il FT. In uno scenario del genere, «il prezzo delle stablecoin potrebbe (anche) scendere» poiché perdono il loro ancoraggio a una valuta sovrana, ha detto.
«Guerra valutaria»
Gli USA, o meglio, le stablecoin ancorate al dollaro, dominano il mercato globale che attualmente si aggira sui 280 miliardi di dollari controvalore, con proiezioni che parlano di 2 mila miliardi entro il 2028. Ma altri Paesi non stanno a guardare, se non altro perché qualora queste valute digitali dovessero davvero diventare mainstream, cioè utilizzate per le transazioni quotidiane (alla pari di contanti, carte di credito o sistemi di pagamento istantaneo), anche internazionali, si dipenderebbe, ancora una volta, da società private statunitensi (un po’ come già ora per i colossi dell’informatica e della tecnologia).
Per questo motivo, in Europa e in Cina si sta andando nella direzione di valute digitali emesse dalle rispettive banche centrali. Mentre per l’euro digitale bisognerà attendere almeno fino all’anno prossimo, l’e-CNY (yuan digitale) vanta già 260 milioni di utenti e transazioni del valore pari a 7.300 miliardi di dollari. Lo indica uno studio del Centre for Economic Policy Research (CEPR), che analizza la «guerra valutaria» che si profila all’orizzonte fra gli USA e la Cina, con quest’ultima che sta costruendo canali di pagamento transfrontalieri che aggirano i sistemi bancari occidentali, nel tentativo di proteggersi dalle sanzioni e promuovere lo yuan nel commercio globale.