La trappola dell’assistenzialismo

LUGANO - L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) all’inizio di questo mese ha sollevato critiche nei confronti dell’attuale Governo italiano. Nel mirino dell’OCSE, di cui fanno parte 36 Paesi con economie di mercato con PIL a livello alto o medio-alto, sono finite in particolare le misure sul reddito di cittadinanza e sulle pensioni (quota 100). L’Esecutivo Lega-5 Stelle ha respinto le critiche, con le prese di posizione del premier Giuseppe Conte e dei vicepremier Matteo Salvini e Luigi Di Maio; più diplomatico il ministro dell’Economia Giovanni Tria, che a Roma ha incontrato il segretario dell’OCSE, il messicano Angel Gurria. Chi dunque ha ragione, gli esperti dell’OCSE che puntano il dito contro alcune misure del Governo italiano o l’Esecutivo di Roma che le respinge? Le esperienze del passato e le cifre attuali fanno pendere la bilancia a favore dell’OCSE e di quanti criticano l’impostazione del Governo italiano. Vediamo più da vicino perché.
L’OCSE analizza anche la situazione dei singoli Paesi e il primo aprile scorso è toccato alla Penisola, con il Rapporto sull’Italia 2019. L’OCSE prende in considerazione luci e ombre e vuole avere un’intonazione costruttiva, le critiche mirano a favorire il rafforzamento del Paese in questione. Indicati alcuni aspetti positivi dell’Italia – tra questi la buona qualità complessiva della vita, un aumento dell’occupazione e una diminuzione della disoccupazione nella fase recente, un relativo miglioramento della salute del sistema bancario - il Rapporto dà poi spazio agli aspetti più problematici, tra i quali soprattutto lo stallo della produttività e della crescita economica, le disparità sociali e regionali, l’alto debito pubblico.
In questo contesto, per l’OCSE sono controproducenti le misure su quota 100 per le pensioni e sul reddito di cittadinanza, varate dal Governo sovranista-populista. Con quota 100, si è creato in pratica un nuovo canale di prepensionamento, permettendo l’approdo alla pensione a chi ha compiuto i 62 anni ed ha almeno 38 anni di contributi. Il reddito di cittadinanza è uno strumento di sostegno economico rivolto a quanti hanno un reddito inferiore alla soglia di povertà; una persona che vive sola può avere sino a 780 euro al mese (887 franchi al cambio attuale), una famiglia composta da due adulti e un figlio maggiorenne, o due minorenni, può avere sino a 1.330 euro al mese (1.513 franchi). I beneficiari in grado lavorare potranno rifiutare in modo limitato le offerte di impiego che dovessero arrivare; per quanti hanno più di 67 anni, c’è la pensione di cittadinanza.
Secondo l’OCSE, quota 100 “rallenterà la crescita nel medio termine, farà aumentare il debito pubblico e, se non applicata in modo equo, rischierà di far aumentare le disparità tra generazioni”. Di qui la proposta, illustrata da Gurria, di abrogare la misura o almeno di considerarla come temporanea. Quanto al reddito di cittadinanza, secondo l’OCSE è troppo generoso, rischia di spingere molte persone a lavorare in nero e potrebbe funzionare solo con “un sostanziale miglioramento dei programmi di formazione e ricerca del lavoro”. L’errore del varo di queste due misure si aggiunge ai problemi già emersi in precedenza e porta quindi l’OCSE a formulare sull’economia italiana previsioni diverse da quelle dell’Esecutivo di Roma.
Mentre il Documento di economia e finanza (DEF) del Governo italiano prevede per quest’anno un aumento del Prodotto interno lordo (PIL) dello 0,1%, l’OCSE prevede una recessione con un -0,2%. Il Governo prevede sempre per il 2019 un rapporto deficit pubblico/PIL del 2,4% e un rapporto debito pubblico/PIL del 132,6%; l’OCSE prevede rispettivamente 2,5% e 134%. Le divergenze si proiettano poi anche sulle previsioni per il 2020. “Manifesterò forte dissenso al segretario Angel Gurria”, ha detto il primo aprile scorso il premier Giuseppe Conte. “Le analisi OCSE – ha affermato il suo vice, Matteo Salvini – mi scivolano addosso. La riforma crea lavoro, chi dice che va abrogata non ha capito nulla”. L’altro vice, Luigi Di Maio, ha detto a sua volta: “Qualcuno a migliaia di chilometri da qui dice che ci serve l’austerity? La facessero a casa loro”.
Giovanni Tria, ministro dell’Economia, ha mantenuto la cortesia che normalmente in effetti ci si aspetterebbe a livello istituzionale e ha risposto in modo più mediato. “Quota 100 – ha detto Tria – è temporanea e sperimentale. Il reddito di cittadinanza è uno strumento di attivazione della forza lavoro e non solo assistenziale. Su crescita e conti pubblici penso che faremo meglio di quanto prevede l’OCSE”. È la risposta di un economista che sostiene la linea del Governo ma che al tempo stesso vede anche che alcuni timori dell’OCSE non sono infondati.
Il problema è anche che, nel caso italiano, piove sul bagnato. Nelle pensioni, il Paese ha già sperimentato in passato molte forme di prepensionamento. Il risultato è che l’età media effettiva di pensionamento nel periodo 2012-2017 era in Italia già bassa, di 62,4 anni per gli uomini e di 61 anni per le donne (dati OCSE). In Germania era ad esempio di 63,6 anni per gli uomini e di 63,4 anni per le donne; In Svizzera era di 65,7 anni e di 64,3 anni rispettivamente. Fuori dall’Europa, tra i livelli più elevati c’era il Giappone (70,6 anni e 69,7 anni) e c’erano gli USA (67,6 anni e 66,1 anni). In questo quadro, e con un chiaro innalzamento della speranza media di vita, era opportuno favorire altri prepensionamenti in Italia? In termini di funzionamento dell’economia e del sistema pensionistico, la risposta è no. Anche perché, occorre aggiungere, le statistiche internazionali mostrano che i prepensionamenti non si sono rivelati uno strumento per creare occupazione giovanile.
Per il reddito di cittadinanza, il problema è duplice. Da un lato il livello di spesa pubblica in Italia è già elevato (49,2% del PIL quest’anno secondo l’FMI, contro una media del 46,9% nell’Eurozona), dall’altro è tutto ancora da verificare il funzionamento delle strutture per la ricerca dell’impiego, che in teoria dovrebbero portare i beneficiari del reddito di cittadinanza verso il lavoro. In queste condizioni, l’aver voluto mettere insieme l’assistenza (che dovrebbe essere sempre mirata e non estesa a una miriade di casi) e la ricerca del lavoro, rischia concretamente di porre ancor più in tensione i conti pubblici già segnati da un maxi debito e di non far raggiungere l’obiettivo dello sviluppo dell’impiego.
L’assistenza rischia così di ampliarsi talmente, in attesa di un lavoro che non si sa se arriverà, da diventare nuovamente assistenzialismo. Quest’ultimo, come si è già visto molte volte, in un’economia di mercato è una trappola: lo Stato spende molti soldi dei contribuenti per allargare l’assistenza, ma in assenza di riforme che rendano attrattiva l’economia, che facilitino gli investimenti privati e la creazione di nuovo lavoro, la crescita economica resta scarsa; con una bassa crescita c’è poi bisogno di altra assistenza e così via. Alcuni investimenti pubblici sono evidentemente necessari, ma perché questi siano possibili senza altri shock per i conti nazionali occorre una riduzione del debito pubblico, soprattutto attraverso la diminuzione delle spese pubbliche improduttive. Inoltre, per far marciare bene l’economia occorrono appunto anche e soprattutto investimenti privati. Questi però possono esserci in misura sufficiente quando un sistema Paese funziona e garantisce un quadro adatto alle attività delle imprese.