L'intervista

«La trasparenza sui salari può aiutare a combattere le disparità»

A colloquio con Giulia Savio, ricercatrice all'Axa Gender Lab dell'Università Bocconi e consulente di Equi-Lab, sul tema dell'uguaglianza di genere in ambito lavorativo
Il divario salariale è un effetto visibile della cosiddetta «segregazione occupazionale». ©CdT/Chiara Zocchetti
Dimitri Loringett
02.02.2023 06:00

L’effetto più evidente della cosiddetta «segregazione occupazionale» tra donne e uomini nelle varie professioni è il divario retributivo («gender wage gap»), che secondo i più recenti dati dell’OCSE si situa intorno al 15% del reddito mediano nelle principali economie occidentali. Con Giulia Savio, ricercatrice all’Axa Gender Lab della Bocconi di Milano e consulente di Equi-Lab, parliamo di uguaglianza di genere in ambito lavorativo.

Dott.ssa Savio, come possiamo spiegare il fatto che oggi, nonostante i progressi compiuti negli ultimi due o tre decenni, per una determinata posizione lavorativa la donna - a parità di formazione ed esperienza - continua a guadagnare meno rispetto ai colleghi maschi?

«Ci sono diverse spiegazioni; la prima è la cosidetta “segregazione orizzontale”. Le donne in media finiscono a fare lavori in discipline più legate agli studi umanistici, all’istruzione e all’ambito sociale. E in questi settori si guadagna generalmente di meno rispetto ad altri più quantitativi, come per esempio ingegneria o finanza, tipicamente scelti dagli uomini. La segregazione orizzontale ha radici antiche e comincia già durante il percorso formativo. Se guardiamo ai laureati nelle STEM (le discipline scientifico-tecnologiche, ndr) in Svizzera, appena il 23% sono donne. In modo ancora più plateale, se guardiamo ai laureati nel campo dell’ingegneria, del manifatturiero o delle costruzioni, la componente femminile copre solo il 9,93% dei laureati, stando al Global Gender Gap Index 2022 del WEF.

Poi c’è una segregazione di tipo verticale: se guardiamo alla proporzione di uomini e donne nella scala gerarchica, le donne sono sottorappresentate nella direzione e nel management (38,2% uomini contro il 27,4% delle donne) e sovra rappresentate in ruoli non manageriali e di apprendistato (il 61,64% di uomini contro il 71,94% di donne, stando ai dati 2021 dell’Ufficio federale di statistica (UST).

Le cause hanno a che fare sia con la domanda, sia con l’offerta. Possono entrare in gioco i pregiudizi dei datori di lavoro, ma anche la minor attitudine alla competizione e al rischio delle lavoratrici, rispetto ai colleghi uomini. Infine, non dimentichiamo che anche l’investimento – vincolato – nella carriera conta».

Si riferisce alla cosiddetta «child penalty»?

«Anche. Piu generalmente, c’è un terzo fattore, estremamente rilevante, che riguarda la storica divisione dei ruoli all’interno della famiglia, divisione che in alcuni Paesi persiste ancora oggi. La Svizzera in questo è un Paese che segue un modello abbastanza tradizionale. Mentre l’uomo lavora a tempo pieno realizzandosi nella carriera, le donne tipicamente lavorano a tempo ridotto e si prendono cura della casa e della famiglia.

Più precisamente, mentre il 60% delle donne fa lavoro ridotto, solo il 30% degli uomini fa altrettanto, stando ai dati 2021 dell’UST. Nei dati raccolti da dall’associazione Equi-Lab, sulle imprese ticinesi vediamo che la percentuale di lavoro è sistematicamente più bassa per le madri, rispetto a quella delle non madri, ma tale differenza spesso non si riscontra per gli uomini. La percentuale ridotta, quindi, è uno degli esempi in cui la “child penalty” (lo «scotto» che le donne pagano dopo il rientro dalla maternità, ndr) colpisce la carriera delle donne, spesso creando un divario che perdura nel lungo periodo, anche quando i figli crescono».

Quindi, sembra che una parte importante della disparità salariale - child penalty a parte - è spiegato dal fatto che c’è segregazione di genere. Quanto è facile riequilibrare i settori rendendoli più «gender neutral»?

«Sicuramente attualmente c’è uno sforzo in questa direzione, sia nelle università (a livello di formazione) nell’incoraggiare le studentesse verso le carriere scientifiche, sia nelle aziende nell’assumere il personale in modo più neutrale rispetto al genere (si pensi, in ultimo, alla recente attenzione ai potenziali “pregiudizi” degli algoritmi di selezione del personale). Ci sono però delle difficoltà, e non solo ad attrarre le donne in settori maschili, ma anche a fare l’opposto.

Alcuni studi (inclusa una recente pubblicazione che coinvolge anche l’Università di Zurigo) documentano che in settori inizialmente maschili, l’entrata delle donne ha creato un’uscita da parte degli uomini. E questo perché settori a prevalenza femminile richiamano stereotipi a cui gli uomini non vogliono essere associati. D’altronde, anche in settori che sono storicamente femminili si ha da sempre difficoltà ad attrarre uomini. Alcuni esperimenti scientifici hanno dimostrato che un modo per aumentare le candidature maschili in settori femminili può essere quello di suggerire agli uomini la loro potenziale efficacia in questi lavori».

Se si dovesse riuscire a raggiungere la parità di genere in una determinata professione, si raggiungerebbe anche la relativa parità remunerativa?

«In teoria sì, ma in pratica il salario nel settore privato è il risultato di molti fattori. Anche se un uomo e una donna hanno la stessa esperienza, e lavorano nella stessa posizione, il salario orario effettivo può essere diverso. È in questo caso che avviene ciò che è propriamente chiamata discriminazione salariale. Non bisogna dimenticare che la negoziazione tra le parti in questa fase gioca un ruolo fondamentale. Le donne sono meno inclini a negoziare. Sicuramente una maggiore trasparenza sui salari aiuterebbe a combattere le disuguaglianze di questo tipo».