L'analisi

Le acrobazie delle banche centrali tra crescita economica e inflazione

Tensioni geopolitiche internazionali e protezionismo americano mettono gli istituti davanti a un quadro molto complicato La scelta tra il sostegno al Prodotto interno lordo e la lotta contro l’aumento del rincaro in molti casi sta diventando ancora più difficile
©CLAUDIO GIOVANNINI
Lino Terlizzi
Lino Terlizzi
02.11.2025 23:00

Le maggiori banche centrali sono in questa fase costrette a esercizi di acrobazia. Il mandato principale degli istituti centrali riguarda la stabilità dei prezzi e della valuta, ma inevitabilmente c’è da parte loro anche un’attenzione ai livelli della crescita economica e dell’occupazione. La situazione ideale è quella in cui c’è una buona crescita con bassa inflazione. Ma non sempre è facile e nella situazione attuale c’è il rischio di andare all’opposto, verso una crescita bassa con un’inflazione alta. Le tensioni geopolitiche, le guerre, i dazi americani spingono in questa seconda direzione.

La Fed

Le banche centrali, nella diversità dei vari quadri nazionali, cercano con fatica di far la loro parte contro un approdo negativo. I tassi di interesse sono uno dei maggiori strumenti degli istituti centrali. Alzando i tassi, si contrasta l’inflazione ma non si aiuta la crescita economica; abbassando i tassi, si fornisce un supporto alla crescita ma non si lotta contro l’inflazione. Durante la gestione ordinaria, le banche centrali muovono in maniera moderata un po’ al rialzo e un po’ al ribasso, mirando a un equilibrio tra i due versanti. Durante una gestione non ordinaria, come l’attuale, le scelte possono diventare dilemmi e gli istituti centrali possono dover fare acrobazie, spesso anche in tempi molto rapidi. Vediamo alcuni esempi di questa fase. L’americana Federal Reserve (Fed) sta navigando in acque molto agitate. Il vertice della Fed da tempo viene attaccato dal presidente USA Trump, che vuole tassi più bassi per supportare la crescita. La banca centrale statunitense, guardando ai rischi di inflazione, ha lungamente risposto di no. Poi, a settembre e nei giorni scorsi ha attuato due tagli, entrambi di un quarto di punto; ora i tassi di riferimento USA sono nella fascia 3,75%-4%. Ciò può contribuire al sostegno di una crescita americana che è in rallentamento annuo, ma non aiuta nella lotta all’inflazione. Il rincaro negli USA era al 2,3% in aprile ed era al 3% in settembre; il trend, anche a causa dei dazi e della debolezza del dollaro, è di risalita dell’inflazione. L’obiettivo delle principali banche centrali, Fed inclusa, è un’inflazione media annua del 2%. La Federal Reserve nei prossimi mesi potrebbe dover fare una scelta molto drastica: o sostegno alla crescita o lotta all’inflazione.

BCE e BoE

Per la Banca centrale europea (BCE) le acque sono meno agitate, ma rimangono insidiose. La BCE aveva già tagliato i tassi di riferimento sull’euro e dunque nei giorni scorsi non si è mossa, restando nella fascia 2%-2,40%. Lo svantaggio di una crescita economica scarsa dell’Eurozona su questo versante è diventato paradossalmente un vantaggio per la BCE, che ha potuto dedicarsi alla riduzione dei tassi a favore della ripresa economica, senza grandi timori sull’inflazione. Il rincaro nell’area dell’euro era all’1,9% nel maggio scorso e al 2,1% in ottobre. Da questo punto di vista la situazione è migliore rispetto agli USA, ma l’obiettivo della riduzione del rincaro al 2% annuo non è ancora pienamente raggiunto; bisognerà vedere quali riflessi sui prezzi avranno nei prossimi mesi le tensioni internazionali. Inoltre, il pur leggero miglioramento della crescita, previsto per l’Eurozona quest’anno, potrebbe spingere un po’ i prezzi. La BCE ora è vicina all’equilibrio, ma potrebbe più avanti esser chiamata a scegliere nuovamente tra sostegno alla crescita e lotta all’inflazione. La Bank of England (BoE) dal canto suo è in una situazione più simile a quella della Fed americana. La crescita britannica è moderata ma sta tenendo, però l’inflazione è nettamente risalita: era al 2,6% in marzo e al 3,8% in settembre (indice CPI). Il tasso guida di Londra è al 4%, nei prossimi giorni la banca centrale britannica dirà se intende cambiare o no. Potrebbe essere un indizio sulla linea che la BoE intende seguire nei prossimi mesi e dunque su quanto conta il supporto alla crescita economica e quanto conta la lotta contro un’inflazione che ha ripreso spazio.

La BNS

La Banca nazionale svizzera (BNS) è in una situazione molto diversa. La BNS ha tagliato il tasso di riferimento sino allo 0%. Ciò è stato possibile per tre motivi: l’inflazione elvetica è molto bassa, dello 0,2% in settembre, dentro la fascia-obiettivo 0%-2%; la crescita economica, pur esprimendo resilienza, è in rallentamento e va sostenuta; il franco è molto forte e la BNS vuole frenarlo per aiutare l’export. L’istituto svizzero è dunque più avanti di altri; tuttavia, dovrà scegliere se per trattenere il franco basterà lo 0% oppure occorrerà un ritorno ai tassi negativi, che sono molto controversi, perché creano alcuni problemi al settore finanziario e ai risparmiatori.

I dazi USA frenano l'economia globale

I dazi americani stanno contribuendo al rallentamento economico internazionale e nel contempo non stanno riducendo il deficit commerciale degli Stati Uniti. L’obiettivo dichiarato del presidente USA Trump è tagliare il disavanzo americano nei commerci, dato da un import superiore all’export. Ma le cifre sinora disponibili non mostrano una vera inversione di marcia. I sostenitori dei dazi affermano che è troppo presto, che occorre aspettare per poter avere gli effetti sul deficit. Vedremo se così sarà, intanto però è anche utile registrare ciò che dicono i dati sin qui a disposizione. Secondo le cifre degli uffici governativi americani, tra gennaio e luglio di quest’anno il deficit commerciale complessivo degli USA (merci e servizi) è stato di 654 miliardi di dollari, in netto aumento rispetto ai 499 miliardi dello stesso periodo dell’anno scorso. Le importazioni nei primi sette mesi di quest’anno sono state di 2.624 miliardi, contro i 2.367 miliardi di un anno prima. Le esportazioni sono state di 1.970 miliardi, contro i 1.867 miliardi di un anno prima. Dunque le importazioni sono aumentate di oltre 250 miliardi, mentre le esportazioni sono salite di circa 100 miliardi (nonostante l’aiuto del dollaro debole). La dinamica dell’import che sopravanza l’export non si è interrotta. Negli Stati Uniti c’è shutdown, blocco di una parte dei servizi pubblici a causa dei dissensi politici sul tetto al debito, e molte statistiche sono in ritardo. Per il mese di agosto non ci sono ancora le cifre complessive sui commerci, però ci sono quelle del solo import-export di merci. Su questo versante il deficit nel mese è stato di 85 miliardi di dollari, come conseguenza di un import di 261 miliardi e un export di 176 miliardi; ciò significa che per il periodo gennaio-agosto 2025 il deficit nelle merci è stato di 925 miliardi, contro i 778 miliardi dello stesso periodo 2024. Va ricordato che il disavanzo commerciale USA è proprio nelle merci, mentre nei servizi c’è un avanzo, seppure ovviamente di dimensioni meno ampie, che lima in parte il deficit complessivo. Nel frattempo la crescita del Prodotto interno lordo (PIL) mondiale sta rallentando, per via delle tensioni geopolitiche internazionali e delle guerre ma, secondo la gran parte degli esperti, anche per via delle battute d’arresto negli scambi economici dovute ai dazi americani, che aggiungono il loro effetto negativo. In contemporanea in una serie di Paesi, e in particolare negli USA, l’inflazione torna a salire ed è difficile pensare che ciò non abbia legame con gli effetti dei dazi sui prezzi. Rimanendo alla crescita economica, il Fondo monetario internazionale (FMI) ha reso note a metà ottobre le sue stime e previsioni aggiornate. La crescita mondiale, che è stata del 3,3% nel 2024, dovrebbe essere del 3,2% nel 2025 e del 3,1% nel 2026. Tra i Paesi che per l’FMI più dovrebbero subire un rallentamento del PIL ci sono proprio gli Stati Uniti: la loro crescita, che è stata del 2,8% l’anno scorso, dovrebbe essere del 2% quest’anno e del 2,1% il prossimo. Per l’Eurozona c’è un doppio aspetto, da un lato la sua crescita rimane inferiore a quella degli USA, dall’altro c’è un seppur piccolo miglioramento: dallo 0,9% del 2024 dovrebbe passare all’1,2% del 2025 e all’1,1% del 2026. Anche il Regno Unito dovrebbe avere un seppur lieve miglioramento, passando dall’1,1% dell’anno scorso all’1,3% sia per quest’anno sia per il prossimo. Passo molto lento per il Giappone: 0,1% nel 2024, 1,1% nel 2025, 0,6% nel 2026. L’FMI per la Svizzera prevede ancora una resilienza di fondo, ma con un colpo di freno in questo 2025. Dopo l’1,4% del 2024, la Confederazione elvetica dovrebbe crescere non più dello 0,9% quest’anno, per poi avere una certa risalita l’anno prossimo, con un 1,3%. Un saliscendi che è difficile non collegare agli effetti delle tensioni geopolitiche internazionali e dei dazi americani, considerando l’apertura dell’economia elvetica e l’ampia influenza che su di essa hanno i rapporti economici con l’estero.