«L’ecologia è antisociale? Non agire può essere peggio»
L’ecologia, che in ambito economico potremmo definire eco-capitalismo, è di moda, ma pone anche problemi di carattere tecnico, finanziario e di equità sociale. Ne abbiamo parlato con Barbara Antonioli Mantegazzini, professoressa titolare alla Facoltà di scienze economiche dell’USI e vicedirettrice dell’Istituto di ricerche economiche (IRE).
Oggi si parla molto di ecologia. Ma il nostro sistema economico-industriale non è stato concepito per raggiungere obiettivi ambientali, ma per massimizzare la produzione e i consumi e quindi necessita di una profonda ristrutturazione. Ma gli obiettivi ecologici sono compatibili con la crescita del PIL, che rimane al centro della nostra società? E sarà possibile cambiare modello economico mantenendo lo stesso livello di produzione e consumo e quindi di benessere?
«La conciliazione tra l’obiettivo della crescita e quello del contenimento degli effetti negativi del cambiamento climatico è un tema attuale su cui però si indaga da molti anni. Nel breve termine e a parità di condizioni, produrre di più significa inquinare di più. Per questo è importante favorire l’innovazione tecnologica così come i processi di miglioramento dell’efficienza, agevolando una “crescita verde”, ragionata e sostenibile, che incorpori il valore della natura senza pregiudicare il benessere raggiunto. D’altro canto, in questo processo di revisione di produzione e consumi ad alcune imprese e settori saranno richiesti cambiamenti più radicali (si pensi, ad esempio, alle acciaierie o all’industria automobilistica tradizionale); sarà quindi importante assicurare misure di tutela per i lavoratori e i cittadini più coinvolti. Non dimentichiamo che anche il modello di produzione e consumo basato sulle fonti fossili non era e non è privo di problemi; basti pensare agli effetti sull’inflazione nel 2022 della guerra in Ucraina, che hanno avuto ricadute drammatiche su famiglie e imprese».
A suo modo di vedere esistono alternative praticabili?
«Direi di no. Invertendo i termini della questione, rammentiamo che diversi studi condotti evidenziano come il non agire per cercare di contrastare il cambiamento climatico, quindi non considerare obiettivi ecologici, possa costare molto in termini di PIL. Secondo un recente studio dell’ETH di Zurigo, se il riscaldamento raggiungesse i +3 gradi, i corrispondenti eventi climatici estremi come le ondate di calore e le inondazioni potrebbero determinare una riduzione fino al 10% del PIL globale, valore che potrebbe raggiungere il 17% per i Paesi meno sviluppati. Secondo un altro studio, i costi delle corrispondenti politiche di mitigazione sarebbero di molto inferiori alle riduzioni di reddito che si registrerebbero in caso di inazione. Peraltro, anche la conservazione della situazione attuale richiederebbe comunque investimenti: la Confederazione stima un aggravio di costi nell’ordine del 10% per lo scenario Zero Netto (rispetto al mantenimento dello status quo), probabilmente meno di quanto si potrebbe pensare».
Anche a livello politico si sono stabiliti obiettivi ambiziosi, come per esempio la Legge europea sul clima, che mira a raggiungere emissioni nette pari a zero entro il 2050. Lei ritiene realistico tutto ciò?
«Uno scenario può essere più o meno realistico in funzione della credibilità delle politiche e del complesso di azioni che vengono delineate per il raggiungimento degli obiettivi prefissati. Un recente studio appena pubblicato su Nature Climate Change stima che, in termini tecnologici e finanziari, lo Zero Netto è fattibile, ribadendo come la sfida risieda proprio nell’adozione delle politiche conseguenti. Come anticipato, obiettivi ambiziosi che richiedono cambiamenti anche importanti, a partire già da ora, nelle abitudini di consumo così come delle tecniche di produzione. Chiaramente, proprio perché questa accelerazione non è tanto frutto di una normale evoluzione tecnologica ed economica quanto di una necessità di “riparare” un ambiente già ampiamente compromesso, gli ostacoli sono molti, in primis i costi, così come anche l’accettazione, soprattutto da parte dei cittadini interessati, di sollecitazioni o imposizioni in termini di comportamenti. Si tratta anche di prevedere le possibili ricadute positive e anche negative sul tessuto economico, produttivo e sociale, da accompagnare con adeguati sistemi di incentivazione o sussidio, che permettano di alleviare gli aggravi di spesa».
Ma la gente è confusa e fa fatica a credere a obiettivi così ambiziosi. Inoltre, nutre sospetti nei confronti di una politica che viene a volte considerata lesiva delle libertà e che potrebbe pesare sul loro livello di vita.
«Come già anticipato, si tratta di preoccupazioni sicuramente comprensibili. Spingere verso cambiamenti comportamentali non indotti da naturali mutamenti di abitudini può amplificare i problemi di accettazione sociale. Gli individui sono normalmente avversi alle perdite e cercano di mantenere il proprio status quo, il proprio comfort, incluso quello economico. Senza contare che alcune misure possono davvero essere percepite con grande fastidio. A titolo di esempio si pensi al numero chiuso per accedere a determinati luoghi pubblici, misura per contrastare il cosiddetto overtourism, eccesso di turismo. Oppure, alle nostre latitudini, al limite degli 80 all’ora in autostrada in momenti di eccesso di polveri sottili. Queste problematiche devono preoccupare le istituzioni e i decisori pubblici, proprio perché cittadini e consumatori sono al centro di un processo di transizione energetica sostenibile, determinandone il successo o il fallimento».
Alcuni esperti mettono in guardia sul rischio che il cosiddetto «eco-capitalismo» sia «fatto su misura» per le classi dirigenti e che possa provocare un inasprimento delle disparità all’interno della popolazione e fra Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo. A suo avviso esiste questo rischio?
«Le disparità economiche attuali sono già molto marcate e non possiamo permetterci ulteriori aggravi. Proprio per questo motivo è importante ribadire che, sebbene la transizione energetica e la lotta al cambiamento climatico comportino costi significativi per le generazioni presenti, non intraprendere questa strada potrebbe ampliare ulteriormente le disuguaglianze. Per dirne una, i meno abbienti hanno meno risorse economiche e assicurative per proteggersi dagli eventi climatici estremi. Al crescere del PIL, cresce infatti anche la protezione dalla vulnerabilità climatica e si riducono i danni della stessa. Gli studi condotti hanno evidenziato che il cambiamento climatico ha aumentato le disuguaglianze in passato e ha colpito maggiormente i poveri, sia globalmente che all’interno dei singoli Paesi e in futuro potrebbe essere ancora peggio. In altri termini, non investire nella transizione energetica non permette di proteggersi dalle diseguaglianze, bensì rischia di aumentarle. Si tratta quindi di trovare (anche) i giusti meccanismi per la ripartizione degli oneri e la tutela dei più deboli. Occorre quindi rendere concreta la “Just Transition”, cioè il meccanismo in base al quale si favorisce la transizione energetica senza che “nessuno sia lasciato indietro” (“leaving no one behind”)».
Assistiamo a una maggiore sensibilità, e anche «pressione», verso comportamenti responsabili da parte dei consumatori. Ma a suo avviso comportamenti più responsabili a livello individuale riusciranno veramente a fare la differenza a livello ecologico?
«La società è data dalla somma degli individui; ovviamente, maggiore è il coinvolgimento, la presa di coscienza della necessità di mutare alcune abitudini di consumo, maggiori saranno i risultati. Personalmente, ritengo che ci debba essere una generale assunzione di responsabilità in merito alla terra che vogliamo lasciare alle prossime generazioni. Mi piace sempre rammentare la frase di Ban Ki-moon, ottavo segretario generale delle Nazioni Unite: “Non abbiamo un Piano B perché non c’è un Pianeta B”».