L'analisi

Lehman, 15 anni fa il crollo: cosa non abbiamo imparato

Il 15 settembre 2008 ci fu il fallimento della grande banca americana - A che punto siamo con la regolamentazione? Giovanni Barone Adesi (USI):«Si è fatto molto, ma il rischio zero non ci sarà mai» - Antonio Mele (USI): «Ora le banche centrali hanno quasi finito le munizioni»
Una data rimasta nella storia. ©AP/Mark Lennihan
Roberto Giannetti
15.09.2023 06:00

Nella storia della finanza c’è un prima e un dopo. Questo spartiacque è il 15 settembre 2008, quando la banca americana Lehman Brothers dichiarò la bancarotta. Questo, praticamente, fu l’epicentro della grave crisi finanziaria del 2008. Le vicende che portarono al fallimento sono complesse (vedi articolo sotto), ma oggi l’attualità parla ancora di altri dissesti a noi molto vicini (leggi Credit Suisse), e una questione resta d’attualità: la regolamentazione messa in atto per evitare i fallimenti bancari è adeguata? E cosa si potrebbe ancora fare? Ne abbiamo parlato con due esperti di finanza.

Norme sulla liquidità

«Certamente - spiega Giovanni Barone Adesi professore emerito di teoria finanziaria all’USI - la regolamentazione è migliorata. Per esempio prima di Lehman Brothers a livello internazionale non esistevano norme sulla liquidità, che poi sono state introdotte con il regolamento Basilea 3».

«Il problema - prosegue - è che ci piacerebbe avere un sistema finanziario dove non ci sono mai fallimenti. Ma questo non è possibile, perché bisogna trovare un compromesso fra rischio e crescita economica, e quindi non è desiderabile avere un rischio zero. In particolare, soprattutto per le banche negli Stati Uniti, il fatto di stringere le regole ha avuto come conseguenza il passaggio di molte operazioni al settore finanziario allargato, il cosiddetto shadow banking. E quindi abbiamo meno controllo di prima. Il caso più evidente oggi sono le criptovalute. Quindi direi che la crisi del 2008 ha messo in luce pecche molto gravi, ma certamente non abbiamo ancora risolto tutti i problemi».

«Secondo me - sottolinea - oggi resta una pecca molto grave, ossia il metodo con il quale vengono condotti gli stress test bancari mediante simulazioni di come un istituto reagirebbe a una crisi ipotetica. In realtà non si considerano le varie crisi possibili, e anzi, spesso per motivi politici vengono ignorate quelle più probabili. Infatti in campo normativo ci sarà sempre una battaglia, complicata dal fatto che le banche centrali sono spesso in conflitto di interessi, perché da una parte devono cercare di assicurare la stabilità del sistema finanziario, dall’altra devono stare attente alla crescita economica, e, non da ultimo, subiscono spesso pressioni dalle tesorerie per finanziare i governi. Infine ultimamente è stato chiesto loro anche di occuparsi del clima. Così, oggi hanno un mandato molto confuso ed è già molto se con le loro azioni non aggravano le crisi».

«La regolamentazione finanziaria - rileva - ha come obiettivo la protezione dei risparmiatori, e non degli investitori, la quale è invece demandata alle leggi sulle Borse. E per questo possiamo dire che, contrariamente a quello che molti pensano, ossia che ci sia stato un fallimento della regolamentazione, nel caso di Credit Suisse l’ultima protezione ha funzionato. Infatti gli investitori si sono accollati il fallimento dei manager e delle autorità di controllo, come previsto dalla regolamentazione internazionale».

«Ma è anche vero - nota - che la politica svizzera e gli organi di controllo non hanno avuto la forza di intervenire prima, anche se era evidente da anni che la banca fosse gestita male. Ma poi sono stati il corso delle azioni in Borsa e i numerosi scandali a forzare la mano delle autorità. Le quali, secondo la mia opinione, quando sono intervenute lo hanno fatto bene, anche se in modo tardivo».

«Per concludere - afferma Barone Adesi -, anche in futuro potranno succedere altri casi di dissesto, perché generalmente quando c’è una crisi reagiamo alle cause che la hanno scatenata. È come se ci preparassimo sempre a combattere la battaglia precedente, non la prossima».

«Le regole sono adeguate»

«Il quadro delle regole micro e macroprudenziali - nota dal canto suo Antonio Mele, professore di finanza all’USI di Lugano - a mio avviso attualmente è adeguato. Il dopo Lehman Brothers ha generato un livello di regolamentazione finanziaria forse mai visto nella storia. La separazione fra le attività di investimento da quella bancaria tradizionale ne è un esempio».

«Addirittura, nel periodo antecedente alle odierne fiammate inflazionistiche - aggiunge - alcuni economisti ritenevano che una tale regolamentazione stesse limitando la capacità del sistema bancario di erogare crediti, contribuendo così a provocare effetti deflazionistici».

«Ricordiamo - illustra - che JPMorgan, la banca più rischiosa dal punto di vista sistemico, è sottoposta a un requisito di capitale del 2,5% in più rispetto a prima per il solo motivo di essere fonte di rischio sistemico. Anche UBS e Credit Suisse, certo non le più importanti fra quelle a rischio sistemico mondiale, hanno dovuto sottostare a requisiti di capitale più stringenti per ragioni di rischio sistemico. Inoltre, sono stati introdotti dei cuscinetti anticiclici, richiedendo alle banche di mettere da parte riserve in tempi di espansione.».

«Quindi - precisa - la regolamentazione è massiccia. Ma la domanda da porsi è: funziona davvero? Purtroppo, non del tutto, dato che le crisi finanziarie hanno una componente di imprevedibilità che nessuna regolamentazione ragionevole (vale a dire, non asfittica) può evitare.».

Un altro fallimento alla Lehman è possibile? «Certo - risponde Antonio Mele - ma oggi la regolamentazione è molto più estesa e i regolatori sono più attenti, anche se ci sono altri problemi. Infatti alle nostre spalle abbiamo una politica monetaria ultraespansiva e ora i bilanci centrali sono al limite: in 15 anni, anche a causa della pandemia, il bilancio della Fed si è moltiplicato per quattro, e quello della BCE per tre. E ora, se ci fosse un’altra crisi finanziaria, non avremmo tante cartucce a nostra disposizione, proprio perché le banche centrali hanno già inondato i mercati di liquidità. Un aspetto molto delicato sarà quello di richiedere ai regolatori di identificare per bene il rischio di “azzardo morale”, vale a dire il rischio che il pubblico e le imprese diano per scontato che il sistema potrà sempre essere salvato dalla politica delle banche centrali, favorendo per questa via pratiche e strategie economiche che non sarebbero altrimenti mai state adottate».

È stata la maggiore bancarotta della storia USA

Un caso molto studiato

La maggiore bancarotta della storia statunitense. Il 15 settembre del 2008 Lehman Brothers gettava la spugna e ricorreva al Chapter 11, dicendo addio alla finanza globale e scatenando la nuova grande recessione, la crisi peggiore dalla depressione del 1929. Il fallimento, divenuto un caso da studiare nei libri di scuola, tormenta ancora i sonni di Wall Street e delle autorità statunitensi e non solo.

Nei 15 anni dal collasso, un’ondata di regole si è abbattuta sul settore bancario, ma nonostante questo ci sono stati vari «momenti Lehman» che hanno fatto tremare. A riportare alla ribalta l’incubo ci sono stati negli ultimi mesi il salvataggio di Credit Suisse e il fallimento di Silicon Valley Bank (Svb), che hanno riacceso i timori di un nuovo shock al sistema dalle conseguenze imprevedibili.

Rialzo dei tassi doloroso

Se nel 2008 erano stati i mutui subprime a spingere Lehman a gettare la spugna, causando un effetto domino che non ha risparmiato nessuno, in marzo a innescare la crisi di Svb - la banca simbolo della Silicon Valley - è stato il rialzo dei tassi di interesse e la mancanza di preparazione rispetto all’aggressiva stretta dei tassi di interesse da parte della banca centrale statunitense (Federal Reserve).

Come nel 2008, però, c’è il nodo delle cosiddette banche «troppo grandi per fallire» (too big to fail). Se dopo Lehman la tendenza era stata di evitare di creare giganti del credito, ora il trend è ripreso con forza e i maggiori istituti americani sono ancora più grandi di quanto non lo fossero nel 2008, grazie in parte a una deregulation che le ha favorite.