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Lo «scudo» contro i dazi? Si chiama «hedging»

Se dalle tariffe commerciali imposte dall’amministrazione statunitense non si scappa, contro i rischi valutari ci si può proteggere
Dimitri Loringett
09.08.2025 06:00

Dalle anticipazioni di inizio mandato all’annuncio in grande stile di inzio aprile e infine all’entrata in vigore dei vari decreti esecutivi di questa settimana: la «componente dazi» della politica commerciale dell’amministrazione Trump è ormai realtà e gli esportatori partner degli USA non possono far altro che… pagar dazio.

Dal «Liberation Day» a oggi l’innalzamento delle tariffe doganali negli USA ha portato alle casse di Washington oltre 150 miliardi di dollari, di cui quasi 30 miliardi nel solo mese di luglio, mentre alcune stime parlano di entrate per oltre duemila miliardi sull’arco del prossimo decennio. Come noto, la politica dei dazi serve, secondo Trump, per riequilibrare la bilancia commerciale degli Stati Uniti che a fine 2024 ammontava a oltre 900 miliardi di dollari, cifra simile a quella registrata nel solo primo semestre di quest’anno (va però ricordato che l’aumento, o non diminuzione, è dovuto all’impennata delle importazioni nel periodo pre-Liberation Day). Ma il deficit commerciale degli Stati Uniti si starebbe ora riducendo: stando ai dati pubblicati questa settimana dallo U.S. Census Bureau, nel giugno 2025 il deficit mensile di beni e servizi è stato di 60,2 miliardi di dollari, il più basso dal settembre 2023. Il dato mensile del deficit non fornisce ancora indicazioni sull’efficacia di questa componente della politica commerciale statunitense, che tuttavia presenta altri elementi, come il tasso di cambio del dollaro. Non è un segreto, infatti, che l’amministrazione Trump sostiene l’idea di un dollaro più debole per raggiungere gli obiettivi di politica economica. Tra l’altro, si stima che il deprezzamento del biglietto verde da gennaio a oggi (circa il 10%, misurato dal Dollar Index) sommato ai dazi minimi generalizzati del 10% equivale a un aumento effettivo dell’imposizione tariffaria del 20% circa. E la traiettoria discendente del dollaro per ora non sembra invertirsi.

Ma se dai dazi non si scappa, contro il deprezzamento del dollaro qualcosa si può fare: coprire il rischio di cambio. Ne abbiamo parlato con Johannes Banner, co-responsabile europeo per la clientela commerciale e privata presso J.P. Morgan. «In genere le grandi aziende adottano strategie di hedging che si basano sugli utili operativi proiettati su periodi fino a due-tre anni, ma i dazi creano così tanta incertezza che le aziende non sanno nemmeno se le cifre stimate siano ancora valide e quindi quali dovrebbero essere i valori di riferimento per le coperture in atto e quelle previste in futuro».

Per un’azienda europea che esporta all’estero e fattura in dollari ma che distribuisce gli utili in euro (o franchi) la prospettiva di un dollaro ancora più debole – e tralasciamo la questione della concorrenzialità – è un po’ come navigare con il vento contrario. E viceversa per chi sta sull’altra sponda dell’Atlantico: «Da quando il presidente Trump ha annunciato i dazi – osserva Banner – abbiamo visto raddoppiare i volumi di dollari acquistati dalle aziende statunitensi, che convertono cioè in dollari i loro ricavi in valuta estera. È un comportamento un po’ opportunistico, hanno molta liquidità all’estero e quindi approfittano del valore più debole del dollaro per convertirla e ricevere, di fatto, più dollari. Inoltre, estendono la durata e l’entità delle loro operazioni di copertura. In Europa, invece, osserviamo che le aziende non hanno modificato in modo significativo i loro hedge giornalieri, ma ora tendono a coprire completamente il rischio di cambio per le operazioni strategiche o per i grandi importi, mentre in precedenza lo facevano solo in modo parziale».

Le operazioni di hedging hanno un certo impatto sui tassi di cambio, poiché alla loro scadenza c’è di fatto una vendita di una valuta e l’acquisto dell’altra. In Svizzera, queste attività sono una delle ragioni per il quale il franco svizzero si rafforza, specie quando si tratta di operazioni non commerciali che sfruttano i differenziali dei tassi fra due valute (fra dollaro e franco svizzero il differenziale è attualmente di oltre 400 punti base sulle brevi scadenze) per attività puramente finanziarie, o speculative. «Sì, le operazioni di carry trade influiscono sui tassi di cambio – afferma Banner – ma buona parte delle attività di hedging è legato appunto alle operazioni commerciali, legittime e necessarie».

Le operazioni di hedging hanno naturalmente un costo, dato dal differenziale dei tassi fra le due valute e dalla durata che possono incidere in modo significativo sui margini. Si pensi per esempio alle operazioni di fusione e acquisizione aziendali (M&A), che possono raggiungere valori miliardari: «In Europa – spiega l’esperto – è diffusa la pratica del “contingent hedge”, ovvero di una copertura del rischio di cambio che può essere annullata in caso di esito negativo dell’operazione di M&A, senza penali o altre conseguenze, “restituendo” quindi il rischio alle banche che le hanno negoziate».

Infine, all’esperto chiediamo qualche indicazione sul valore del franco svizzero, dell’euro e del dollaro nei prossimi mesi. «La previsione di J.P. Morgan sul cambio dollaro-franco è di sostanziale stabilità, sebbene in lieve calo attorno a 0,76 entro fine anno. Idem riguardo al cambio euro-franco, che vediamo attorno a 0,91 a dicembre. Riguardo alla prossima decisione della Banca nazionale svizzera, le attese di mercato – e non nostre – è per almeno un taglio entro i prossimi 12 mesi, più probabile a dicembre di quest’anno che non a settembre», conclude Johannes Banner.

Ieri in serata la parità dollaro-franco quotava a 0,8075 e l’euro-franco a 0,9415.

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