Finanza

L'opzione di strumenti non quotati è sempre più scelta dagli investitori

Il «private equity» è ora una classe di attivi che attira l'attenzione anche degli istituzionali
© CdT/Chiara Zocchetti
Gian Luigi Trucco
03.12.2025 23:05

La classe d’investimento private equity, cioè partecipazioni azionarie in società non quotate in Borsa, si è diffusa nel tempo, attirando l’attenzione degli investitori istituzionali, dei family office e quindi di quelli privati, grazie al suo potenziale di rendimento, ritenuto superiore a quello medio di mercato. Il contributo che tale componente può fornire all’interno di un portafoglio diversificato è stato oggetto di un incontro organizzato a Lugano dalla SECA-Swiss Private Equity & Corporate Finance Association.

La presentazione di Livio Dalle, Head Asset Management e Wealth Solutions di Indosuez, ha tracciato le vie dell’evoluzione del private equity fra opportunità, soprattutto di diversificazione, così come rischi, legati a una possibile minore liquidità, efficienza e trasparenza rispetto ai prodotti azionari e obbligazionari tradizionali. Gli approcci al settore sono tre: quello primario, legato all’emissione iniziale, che richiede tuttavia all’investitore un orizzonte temporale lungo, anche ultradecennale. Una soluzione secondaria è disponibile per chi desideri un impegno temporale più breve e un’eventuale uscita anticipata. La formula del co-investimento propone una partecipazione diretta, con un approccio più imprenditoriale, prevalentemente orientato ai family office.

La crescita di questo mercato è dimostrata da alcune cifre: se nel 2020 rappresentava il 5% dell’universo finanziario, oggi la soglia è di circa il 30%, per molte società la via del private equity è preferita rispetto all’offerta borsistica (IPO), con un volume di mercato che raggiunge i 15 mila miliardi di dollari, incluse le obbligazioni. Due terzi del volume vengono da USA ed Europa. Non ci sono gli emergenti.

Livio Dalle ha sottolineato come, al di là della diversificazione, un contributo derivi dalla decorrelazione rispetto agli indici principali, anche se le performance mostrano una grande dispersione e la selettività, soprattutto da parte dell’investitore retail, risulti essenziale, in quanto i criteri di valutazione e gli standard di trasparenza mostrano in alcuni casi necessità di miglioramento.

Il panel che è seguito, moderato da Marco Lucchin, del Comitato SECA Ticino, ha visto la partecipazione di Eric Sibbern, Senior Partner e Managing Director di Veraison Capital, Roderik Strobl, Wealth Manager e Gabriele Corte, direttore generale di Banca del Ceresio.

È emerso come sia mutata l’immagine del private equity presso il pubblico, che ne ha accresciuto la domanda e l’approccio: da quello squisitamente finanziario a quello più imprenditoriale, tipico della nuova generazione di clientela, più attenta ai temi dell’innovazione e della transizione, con nuovi equilibri di portafogli fra componente tradizionale e componente alternativa, seppur potenzialmente più rischiosa e meno liquida.

Su questo mercato influiscono anche i fenomeni di digitalizzazione e di «tokenization», cioè trasformazione dello strumento in entità astratte, ma qui le opinioni degli operatori divergono. Il private equity poco si presta all’eccessiva frammentazione degli investimenti in piccoli importi, non sono per il profilo di rischio che comporta, ma perché ciò contrasterebbe con la natura imprenditoriale e la struttura finanziaria che ne sono alla base.