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L'oro è tornato bene rifugio e un segnale d'incertezza

Le quotazioni del metallo giallo sfiorano i massimi storici – Il rally dei prezzi, iniziato già lo scorso autunno e che continua in queste settimane, è alimentato dalle banche centrali e dagli scenari di rallentamento economico
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Gian Luigi Trucco
24.01.2023 06:00

L’oro torna a brillare superando la soglia dei 1.920 dollari l’oncia. Ieri sera il metallo giallo quotava intorno ai 1.928 dollari l’oncia, segnando un aumento di oltre il 5% da inizio anno e del 18% dai minimi del 2022, dopo aver sfiorato i 2 mila dollari lo scorso marzo. Ancora all’inizio di novembre per un’oncia d’oro si chiedevano circa 1.630 dollari. Il rally è alimentato in gran parte dall’attesa degli investitori per un possibile allentamento della politica monetaria restrittiva da parte della Federal Reserve americana (Fed), se non addirittura di un’inversione di tendenza dei tassi, con conseguente indebolimento del biglietto verde già nella seconda metà del 2023. In realtà questa aspettativa non è ancora suffragata da alcuna indicazione e gli stessi recenti verbali della Fed indicano la volontà di continuare la lotta contro un’inflazione ancora preoccupante, e certo ben lontana dall’obiettivo del 2% fissato dalla Fed stessa e dalle altre banche centrali.

Gli acquisti di Russia e Cina

Un impulso al rally è venuto anche dagli acquisti effettuati da diversi Paesi. Elevate quantità di oro fisico sono state comprate da Russia e Cina (30 tonnellate di lingotti a dicembre per Pechino, ma in realtà il quantitativo sarebbe maggiore). Le strategie comuni puntano a un arricchimento delle loro riserve e a una minore dipendenza dal dollaro USA. Una sorta di «de-dollarizzazione». Secondo le comunicazioni ufficiali della People’s Bank of China le riserve complessive ammonterebbero a 2.010 tonnellate, ma l’obiettivo di Pechino è di incrementarle sensibilmente. Le banche centrali in generale stanno accumulando oro ai ritmi maggiori degli ultimi 50 anni. La tendenza è stata forte per tutto il 2022 (673 tonnellate nei primi nove mesi dell’anno) ed è ulteriormente cresciuto negli ultimi mesi, con 400 tonnellate di acquisti. È in costante aumento la quantità di lingotti che viene esportata dal Regno Unito e dalla Svizzera verso l’Asia e la Cina in particolare. Massicci acquisti sarebbero stati anche effettuati da fondi sovrani dei Paesi del Golfo Persico allo scopo di diversificare le ingenti entrate legate all’aumento dei prezzi di petrolio e gas. In aumento anche la domanda di ETF sull’oro da parte di investitori privati. Al centro del processo di de-dollarizzazione, che sta coinvolgendo diverse aree, vi è naturalmente la Russia, che potrebbe aver acquistato oro anche in maniera ufficiosa. Inoltre, il congelamento di circa 300 miliardi di dollari di riserve detenute da Mosca all’estero può aver indotto alcuni Paesi ad acquistare oro fisico da custodire in patria piuttosto che affidarsi al sistema finanziario internazionale, troppo legato al dollaro americano e alle pressioni di Washington. Comunque nei programmi della banca centrale di Mosca la quota in oro dovrebbe aumentare dal 20 al 40% e quella in yuan cinesi dal 30 al 60%, a scapito della quota in dollari USA.

Unica moneta a non svalutarsi

Al di là di fattori contingenti, il metallo giallo mantiene il suo ruolo di protezione del valore sul lungo termine, nei confronti di rischi finanziari e geopolitici. Come affermava l’ex Presidente della Fed Alan Greenspan, in modo provocatorio e non del tutto gradito agli ambienti finanziari, l’oro è l’unica «moneta» che mantiene nel tempo il suo potere d’acquisto. La storia gli dà incontestabilmente ragione. In momenti d’incertezza e di crisi come quello attuale, anche alla luce della risorgente inflazione, il cui tendenza non è data di conoscere, il suo ruolo può diventare ancora più importante. Ora, sia che le banche centrali mantengano un atteggiamento «preoccupato» nei confronti dell’inflazione, sia che ammorbidiscano la loro politica monetaria in prospettiva di una riduzione dei tassi, ambedue gli scenari sono favorevoli per l’oro e il livello di 2 mila dollari sembra nuovamente raggiungibile. Uno scenario particolarmente grigio, ancorché favorevole per il metallo giallo, è stato tracciato lo scorso venerdì in un’intervista a Le Monde da Nouriel Roubini, economista della New York University, celebre per aver previsto, con dovizia di argomenti, la crisi finanziaria del 2008.

L’inflazione resterà a lungo

Per Roubini, recessione e inflazione ci accompagneranno per i prossimi anni, con bassa crescita ed elevata disoccupazione. Ai rischi di natura geopolitica ed economica si potrebbero aggiungere importanti default di istituzioni finanziarie, considerati gli elevati livelli di indebitamento, e destabilizzazioni socio-politiche. Secondo l’economista, l’idea che l’attuale fase inflazionistica sia temporanea è sbagliata: la combinazione di debiti elevati, superiori a quelli degli anni Settanta e tassi alti potrà condurre a collassi sia sui mercati azionari che obbligazionari, favorendo quindi lo spostamento degli investitori verso beni rifugio, con l’oro in testa. Per Roubini l’inflazione fa tutto sommato comodo ai debitori, pubblici e privati, perché abbassa il volume reale dei loro impegni. Inoltre, secondo l’economista, si profila una guerra commerciale fra l’Occidente e «un gruppo di potenze revisioniste», fra cui Cina, Russia e Iran, con una frammentazione della globalizzazione, delocalizzazioni e alterazioni delle catene di approvvigionamento e produzione destinate ad accrescere ulteriormente l’insicurezza globale.