Politica monetaria

Nella lotta contro l’inflazione si torna a guardare a Friedman

Le banche centrali stanno ritirando la liquidità in eccesso immessa nel sistema bancario durante la pandemia per stimolare l’economia
Anche la Banca nazionale svizzera sta riducendo la quantità di moneta in circolazione. ©Keystone/Peter Klaunzer
Dimitri Loringett
13.10.2023 23:15

«L’inflazione è sempre e ovunque un fenomeno monetario, nel senso che è e può essere prodotta solo da un aumento più rapido della quantità di moneta che della produzione». Così scriveva nel 1970 l’economista statunitense Milton Friedman, Premio Nobel per l’Economia nel 1976 e fondatore del pensiero monetarista. La sua regola, incentrata sul controllo della crescita della massa monetaria, è stata adottata quale principale strumento di politica monetaria per anni dalle banche centrali, tra cui la Federal Reserve e la Banca centrale europea (BCE). Poi, nel 1993, la Fed di Alan Greenspan ha cambiato strategia e, come noto, la politica delle banche centrali delle principali economie si è concentrata sul costo del denaro, ovvero i tassi d’interesse.

Ma ora le cose starebbero per cambiare, anche perché sempre più analisti ed economisti hanno notato che la crescita della massa monetaria o, inversamente, la sua diminuzione sono buoni indicatori dell’andamento futuro dell’inflazione – e anche con largo anticipo. Lo dice anche la Banca dei regolamenti internazionale (BIS), secondo cui «in un regime di alta inflazione, l’offerta di moneta è un indicatore quasi perfetto e l’averla osservata fin da subito avrebbe aiutato le previsioni economiche dopo la pandemia».

«Sterilizzare» la liquidità

Da qualche tempo, gli aggregati monetari di base M0, M1 e M2 (denaro contante, liquidità sui conti e depositi a vista) si stanno riducendo negli USA e altrove. «Guardando ai dati americani, vi è stata effettivamente una riduzione dell’aggregato monetario M2 da un anno a questa parte e, ancor più, del M1 (che è, insieme al M0, l’aggregato monetario che la Fed controlla in modo particolare)», osserva Edoardo Beretta, professore titolare di macroeconomia all’USI. «La stessa tendenza alla riduzione che vale anche per la Banca nazionale svizzera. È vero, quindi, che gli istituti bancari centrali stanno sottraendo (o “sterilizzando”) la liquidità in eccesso presente nel sistema bancario in seguito agli interventi anticiclici per contrastare il rallentamento economico dovuto alla pandemia. Ma l’attuale inflazione sarà molto meno semplice da “curare” che con un aumento dei tassi d’interesse in quanto deriva ancora dallo choc “esogeno” della COVID-19, che è ben diverso (cioè non di natura direttamente economica, bensì sanitaria) rispetto alla “tipica” crisi economico-finanziaria. Dunque, è plausibile che l’aumento dei prezzi tenderà sì a rallentare, ma anche a stabilizzarsi a livelli più elevati rispetto a quelli pregressi».

Causalità fra inflazione e denaro

Secondo la teoria monetarista di Friedman, la relazione fra disponibilità di moneta (money supply) e il suo costo (tassi d’interesse) è stretta. Tuttavia, negli anni del Quantitative Easing (e dei tassi d’interesse ultra-bassi) in cui le economie avanzate sono state inondate di liquidità da parte delle banche centrali per far fronte alla grande crisi finanziaria del 2008, l’inflazione era praticamente inesistente.

Come mai? Ancora Beretta: «Per Friedman l’inflazione è generata da un aumento più che proporzionale della massa monetaria in circolazione rispetto alla ricchezza reale di nuova creazione (cioè il PIL). La causalità fra le due variabili si è però notevolmente ridotta a partire dagli anni Novanta (cioè pur all’aumentare – talvolta anche significativo – della massa monetaria i prezzi al consumo non ne risentivano eccessivamente), ma solo apparentemente: l’inflazione si è spostata (fino alla pandemia) sugli asset finanziari e immobiliari in quanto più remunerativi, abbandonando i beni di consumo a cui gli individui destinano nei Paesi avanzati solo una parte del proprio reddito. L’inflazione è andata, in altre parole, “sotto traccia” e proprio nei settori meno monitorati dagli indici di riferimento in cui è scoppiata la “bolla”, sotto forma di mutui subprime o immobili da svendere (dopo averli acquistati a caro prezzo). La liquidità “iniettata” dalle banche centrali a seguito della crisi economico-finanziaria globale non ha generato, quindi, particolari spinte inflazionistiche in quanto l’economia aveva già “bruciato” diverse migliaia di miliardi di dollari statunitensi e le ha (almeno in parte) compensate. Si sa, poi, che una parte di queste “iniezioni” è stata destinata al sistema bancario che l’ha a sua volta investita in asset e/o l’ha utilizzata ai fini di prestiti interbancari. Dunque, i beni al consumo (i cui prezzi fungono da base di calcolo per l’inflazione) non hanno registrato particolari aumenti».

Friedman vs. Greenspan

Quindi, per le banche centrali, è più efficace intervenire sui tassi d’interesse oppure sulla massa monetaria per controllare l’inflazione? Giriamo quest’ultima domanda al nostro interlocutore. «Chiaramente, operare sui tassi di riferimento e/o perseguire un obiettivo di inflazione (di regola, intorno al 2% annuo) nel medio termine pone minori difficoltà nel comunicare ai soggetti economici gli obiettivi e le decisioni della banca centrale rispetto al concetto di “massa monetaria”. Tuttavia, l’inflation targeting è anche soggetto a possibili “distorsioni” legate, ad esempio, alla composizione e ponderazione dell’indice statistico (cioè alle voci di spesa rientranti) preso a riferimento per determinare il trend dei prezzi».

Insomma, il dibattito tra monetaristi seguaci di Friedman e quelli di Greenspan è acceso. Solo il tempo ci dirà quale delle due correnti avrà avuto ragione.