L'intervista

Paolo Ardoino: «Siamo più solidi di una banca e abbiamo attivi molto liquidi»

Il CEO di Tether commenta la valutazione negativa di Standard & Poor’s, un giudizio che solleva interrogativi sulla trasparenza e sulla stabilità di un attore centrale nel mercato delle stablecoin
© CdT/Chiara Zocchetti
Generoso Chiaradonna
22.12.2025 06:00

Nei giorni scorsi Tether, la società emittente dell’omonima stablecoin e promotrice, assieme alla Città di Lugano, del Plan B per la diffusione della tecnologia blockchain e dei pagamenti in criptovalute, è finita sui giornali di tutto il mondo per una valutazione negativa della sua capacità creditizia da parte dell’agenzia di rating Standard & Poor’s. Abbiamo incontrato in videoconferenza Paolo Ardoino, CEO e uno dei principali azionisti di Tether. Si tratta, lo ricordiamo, di una valutazione che non riguarda una società quotata e che non emette titoli di debito. Il clamore, però, è stato grande anche per la sua popolarità in riva al Ceresio e per il sostegno implicito al Plan B da parte della Città di Lugano.

Paolo Ardoino, la valutazione da 4 – constrained (limitato) a 5 – weak (debole) è stata letta come indicativa di un settore nascente, quello delle criptovalute e delle stablecoin, ma opaco. La Banca centrale europea ha lanciato più volte allarmi sull’adozione su larga scala delle stablecoin, sostenendo che potrebbero mettere a rischio la stabilità finanziaria globale. È davvero così? Tether, con una capitalizzazione di circa 186 miliardi di dollari, può diventare un «buco nero» della finanza mondiale?
«Il motivo per cui la Banca centrale europea dice questo va analizzato dal punto di vista scientifico ed economico. Tutte le banche europee, e non solo, lavorano con il sistema della riserva frazionaria: sono obbligate a detenere circa il 10% di asset liquidi e prestano il restante 90%. Se io deposito in banca 100 mila euro, 90 mila possono essere dati a prestito. In Europa sono garantito fino a 100 mila euro: se deposito un milione sul conto e la banca fallisce, come cliente posso sperare di recuperare solo quella cifra. La BCE è preoccupata perché le stablecoin, e Tether in particolare, funzionano in modo diverso. Noi abbiamo circa l’80% in cash equivalent e una copertura complessiva dei depositi che arriva al 120%. Se le persone iniziano a chiedersi perché dovrebbero tenere i soldi in banca, dove in caso di fallimento recuperano solo una parte, quando possono usare uno strumento completamente collateralizzato, è chiaro che dal punto di vista delle banche centrali questo diventa un problema sistemico».

Mi sta dicendo, quindi, che Tether è di fatto una banca completamente collateralizzata?
«Sì. Con la tecnologia dei token riusciamo ad avere una copertura al 100%, anzi superiore. Oggi, su circa 186 miliardi di dollari di depositi, abbiamo oltre 140 miliardi in buoni del Tesoro americani a breve termine, circa 15 miliardi in oro fisico e il resto in altri strumenti cash equivalent, come i bitcoin. È un portafoglio estremamente più sicuro di quello di una banca tradizionale. È possibile essere una full reserve bank ed essere in grado di generare profitti: con 186 miliardi gestiti al 4% l’anno, parliamo di 7-8 miliardi di dollari di utili annui senza assumere particolari rischi. Noi non dobbiamo prestare i soldi dei clienti per mantenere la struttura, come invece fanno le banche tradizionali».

Ma una delle critiche più frequenti è che le società come la vostra, che emettono stablecoin, godano dei privilegi di una banca senza averne gli oneri. Perché avete deciso di non essere regolamentati dalle norme svizzere ed europee mantenendo il vostro modello di business?
«Non è vero. Noi, contrariamente alle banche, non abbiamo il privilegio di tenere solo il 10% di riserve liquide. Le regolamentazioni per le stablecoin, come il GENIUS Act statunitense, sono molto stringenti: non possiamo fare credito, non possiamo prestare soldi a un cliente per comprarsi una macchina; non facciamo brokeraggio e non gestiamo investimenti per conto dei nostri utenti. Emettiamo, dietro copertura, un gettone digitale equivalente a un dollaro americano: quando l’utente vuole il dollaro indietro, basta che ci restituisca il gettone (il token) e noi restituiamo il dollaro. Nel 2022 – quando ci fu il crollo della stablecoin TerraLuna – siamo stati sottoposti a una vera e propria corsa agli sportelli (bank run): in 48 ore abbiamo rimborsato 7 miliardi di dollari, in 20 giorni altri 25 miliardi. Nessuna istituzione finanziaria negli ultimi 50 anni ha retto un ritiro del 25% dei propri depositi. Noi sì, perché avevamo tutte le riserve. Questo test lo abbiamo superato a pieni voti».

Viene spontaneo pensare a casi come Credit Suisse o alle banche regionali americane fallite nel marzo del 2023.
«Esatto. Quelle crisi dimostrano che il modello tradizionale non è privo di rischi. La nostra è un’innovazione tecnologica dirompente ed è normale che non nasca all’interno del sistema bancario: è difficile che un settore economico inventi qualcosa che distrugge il proprio modello di business. È come se i tassisti avessero inventato Uber. È inverosimile».

Negli Stati Uniti, però, è arrivata una regolamentazione, il GENIUS Act, criticata anche da economisti premio Nobel come Paul Krugman, che ha paragonato le società che emettono stablecoin alle wildcat bank dell’Ottocento americano: raccoglievano oro e dobloni e restituivano carte-valori che poi non si riuscivano a incassare, mentre il «banchiere» era fuggito con la cassa. Il rischio di truffe è elevato in questo ambito.
«Le truffe esistono ovunque, nel sistema finanziario tradizionale come in quello cripto. La differenza la fa la regolamentazione. Il GENIUS Act è una normativa molto aggressiva e severa. Noi operiamo da undici anni e il nostro obiettivo non è l’Europa o la Svizzera: è portare inclusione finanziaria a quattro miliardi di persone che non hanno un conto bancario, in Africa o nel Sud-est asiatico. Se metà della popolazione mondiale resta esclusa dal sistema finanziario di base, i rischi geopolitici e sociali sono enormi. Con questa tecnologia si può fare in poco tempo ciò che nessuna ONG o charity è mai riuscita a fare in decenni di aiuto allo sviluppo».

Ma una società globale come la vostra riesce a far fronte agli obblighi di compliance, antiriciclaggio e conoscenza del cliente?
«Tether lavora con 260 agenzie di law enforcement in oltre 50 Paesi. Collaboriamo in modo proattivo con il Dipartimento di Giustizia statunitense, i servizi segreti, la polizia di Taiwan e quella ucraina. Spesso siamo noi a segnalare movimenti sospetti. Possiamo bloccare i fondi in modo chirurgico, molto più preciso di quanto facciano le banche. Se i soldi rubati da un conto bancario finiscono fuori dall’Europa, recuperarli è quasi impossibile. Noi possiamo farlo, lavorando con le autorità».

Ed è per questo che avete scelto El Salvador come sede legale del vostro quartier generale?
«Sì. La regolamentazione europea è, per noi, impraticabile: richiede che il 60% delle riserve sia detenuto in depositi bancari non assicurati. Mettere miliardi in banche assicurate solo fino a 100 mila euro non ha senso. La normativa americana è nata solo quest’anno ed è innovativa; quella salvadoregna è solida ed è coerente con il GENIUS Act».

Guardando al futuro, vede una «tokenizzazione» completa delle valute tradizionali?
«È molto probabile. Non si tratta di rimpiazzare il dollaro o l’euro, ma di ottimizzare il loro sistema di circolazione. È come passare dal cavallo a Internet. Anche le banche centrali lo hanno capito: la BCE lavora all’euro digitale da tempo».

Un’ultima questione tecnica: non c’è un rischio di concentrazione, con così tanti asset in titoli americani che possono svalutarsi e una parte in bitcoin, attivo molto volatile?
«Utilizziamo titoli di Stato americani a breve termine, i più sicuri. Se anche il bitcoin dovesse arrivare a zero, avremmo comunque più riserve di quanto dobbiamo rimborsare. Abbiamo più oro che bitcoin. L’oro è fisico, non finanziario, ed è custodito in Svizzera. È controllato e revisionato trimestralmente. Inoltre, abbiamo circa 23 miliardi di utili non distribuiti reinvestiti in azienda. La struttura è estremamente solida».

«Con noi la Juventus potrebbe fare meglio»

Tether possiede già oggi l’11,5 per cento del capitale della Juventus SpA. Exor, la società finanziaria riconducibile alla famiglia Agnelli-Elkann possiede da sola il 65,4 per cento delle azioni, Lindsell Train il 5,8 per cento), mentre il restante 17,3 per cento è flottante quotato in Borsa. Nei giorni scorsi ha fatto molto discutere l’offerta di acquisto di una quota di controllo della Juventus da parte di Tether per oltre un miliardo di euro. Offerta, per ora, rifiutata da Exor.

A Paolo Ardoino chiediamo se il tentativo di scalata alla Juventus è dettata da una strategia aziendale o soltanto dal tifo?

«Io e Giancarlo Devasini siamo grandi tifosi della Juventus, ma crediamo anche che oggi abbia un enorme potenziale inespresso: 200 milioni di fan nel mondo, molti nei mercati emergenti che noi serviamo con Tether. Possiamo aiutare il club a interagire meglio con questi fan e portare tecnologie avanzate, al pari dei grandi big della tecnologia, dall’intelligenza artificiale all’analisi delle performance. Se qualcuno vuole vendere, secondo le regole di mercato – la Juventus è una società quotata in Borsa – noi possiamo comprare e non ritiriamo l’offerta. Riteniamo che la Juventus possa fare molto meglio e vorremmo contribuire a un cambiamento positivo, anche senza necessariamente controllarla interamente».